Disdetta per finita locazione alla prima scadenza

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Ordinanza 28 marzo 2022, n. 9851
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28584/2018 R.G. proposto da:
B.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo Polato, con domicilio eletto in Roma,
Piazzale Clodio, n. 22, presso lo studio dell’Avv. Veronica Mattei;
– ricorrente –
contro
T.V., e M.M.;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 2623/2017, depositata il 29
maggio 2018.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 febbraio 2022 dal
Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Svolgimento del processo
1. Con atto notificato il 22 settembre 2014 T.V. intimò a B.G. e M.M. licenza per finita
locazione per la data del 31 gennaio 2015, in relazione ad immobile di sua proprietà
concesso in locazione ai predetti con contratto del 23 dicembre 2010.
Espose a fondamento che la durata era stata pattuita in anni quattro decorrenti dal 1
febbraio 2011 e che, con lettera del 13 maggio 2014, aveva inviato disdetta, essendo
sua intenzione adibire l’immobile ad abitazione del figlio S..
Gli intimati si opposero alla convalida eccependo:
– il difetto di legittimazione attiva dell’intimante in quanto il contratto di locazione
risultava sottoscritto da S.G. e perchè il T. non risultava proprietario dell’immobile
locato;
– che le intenzioni manifestate nella disdetta erano prive di fondamento in quanto
T.S. era già proprietario di un immobile abitativo nello stesso comune.
2. Previo mutamento del rito, con sentenza del 27 ottobre 2015 il Tribunale di
Venezia dichiarò la nullità del contratto e condannò i convenuti a rilasciare il bene ed
a corrispondere al T. l’importo mensile di Euro 580,00, oltre a metà delle spese di
lite, compensate per l’altra metà.
A tale decisione pervenne (secondo quanto ne è riferito nella sentenza d’appello) sul
rilievo che: il contratto era stato redatto come se fosse stato stipulato dal T. (indicato
come “locatore”), mentre era stato sottoscritto dalla moglie S.G.; nell’atto non vi era
alcun elemento che permettesse di riconoscere l’esistenza di una procura o anche
solo l’intento del sottoscrittore di voler firmare in rappresentanza dell’apparente
contraente; poichè per la stipulazione di un contratto di locazione era necessaria la
forma scritta ad substantiam anche la procura doveva aver la stessa forma; stante
l’insanabile contrasto fra il soggetto indicato come parte del contratto ed il soggetto
sottoscrittore, unitamente alla mancanza di procura, veniva radicalmente a mancare
l’accordo, con conseguente nullità del contratto; sotto tale profilo andava accolta la
domanda di rilascio ed i convenuti andavano condannati anche al pagamento di
un’indennità per occupazione senza titolo, da determinarsi nell’importo pattuito come
canone.
3. Proposero contrapposti gravami tutte le parti, la M. e il B. deducendo vizio di
ultrapetizione, difetto di legittimazione attiva in capo al T., erroneità nell’an e nel
quantum della riconosciuta indennità di occupazione; il T., con appello incidentale,
deducendo all’opposto la piena validità ed efficacia del contratto di locazione e della
disdetta.
4. In accoglimento dell’appello incidentale, e rigettati quelli contrapposti del B. e della
M., la Corte d’appello di Venezia, con la sentenza in epigrafe, accertata la validità del
contratto di locazione e della successiva disdetta, ha dichiarato cessato il rapporto
locativo alla data di scadenza del primo quadriennio, confermando la condanna dei
resistenti al rilascio dell’immobile locato.
Ha, infatti, rilevato che dal tenore complessivo del contratto si desumeva che
locatore era esclusivamente il T., come tale ivi indicato, e che pertanto la
sottoscrizione della S. non aveva altro senso se non quello di agire in nome e per
conto del T..
Tale interpretazione, inoltre, risultava avvalorata dal fatto che il canone veniva
versato al T. (e non alla S.) e dalla dichiarazione del teste Z. (resa in altro giudizio
ma nondimeno utilizzabile), agente immobiliare che aveva partecipato alle trattative
ed era presente alla firma, che aveva riferito che la S. aveva dichiarato di aver
sottoscritto il contratto quale delegata del marito.
Ha soggiunto che, peraltro, l’eventuale mancanza di procura non avrebbe comunque
provocato la nullità del contratto atteso che la mancanza di poteri rappresentativi
avrebbe potuto essere eccepita solo dal soggetto falsamente rappresentato. Nel
caso in esame, al contrario, l’eventuale mancanza di procura avrebbe dovuto
considerarsi sanata, ai sensi dell’art. 1399 c.c., dalla ratifica ravvisabile sia nella
disdetta dell’8 maggio 2014, sia nell’atto introduttivo del presente procedimento.
Ha rilevato che, ai fini della validità del contratto di locazione, non era necessario
che il locatore fosse anche proprietario del bene concesso in locazione, e che
comunque la documentazione dimessa, anche se parzialmente contestata,
dimostrava che il T. era effettivamente il proprietario del bene locato.
Ha infine ritenuto valida ed efficace la disdetta, per essere a tal fine sufficiente la
manifestata intenzione di destinare l’immobile ad uso abitativo del figlio T.S. ai sensi
della L. n. 431 del 1998, art. 3, comma 1, senza necessità di fornirne la prova
(“fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle
medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di
cui del citato art. 3, comma 3, nell’eventualità in cui il locatore non abbia adibito
l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi
della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità”).
Ha al riguardo precisato che non valeva ad escludere la serietà dell’intenzione
manifestata nella disdetta la circostanza che T.S. fosse proprietario di un immobile
nello stesso comune, atteso che all’epoca della disdetta detto immobile non era
disponibile perchè concesso in locazione a terzi ad uso abitativo.
5. Per la cassazione di tale sentenza B.G. propone ricorso affidato a tre motivi.
Gli intimati non svolgono difese.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
c.p.c..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3 e 4, “erroneità, nullità e/o carenza e/o vizio di motivazione della
sentenza… laddove è stata riconosciuta la legittimazione attiva in capo al sig. T. in
quanto non proprietario dell’immobile de quo e non parte del contratto di locazione in
contesa; violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 182 c.p.c.”.
Deduce l’erroneità della sentenza impugnata là dove ha ritenuto legittimamente
esercitata l’azione proposta dal T. in assenza di alcuna procura speciale derivante
dalla proprietaria dell’immobile, in palese violazione del disposto di cui all’art. 75
c.p.c..
Rileva al riguardo che S.G. non ha mai fatto ingresso in giudizio a sanare e/o
ratificare l’operato del sig. T.; nè, tanto meno, sono mai stati compiute le verifiche di
cui all’art. 182 c.p.c..
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, errata interpretazione ed applicazione della L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 3.
La regola di giudizio applicata dalla Corte di merito sarebbe, secondo il ricorrente,
erronea nella parte in cui non richiede al giudice di merito un vaglio della sussistenza
in concreto del motivo addotto, in relazione anche ad altri fattori esterni, quali le
condizioni del conduttore, effettuando un equo contemperamento degli interessi
delle parti (validità sostanziale della disdetta).
Sostiene che, a tal fine, nel caso di specie, il giudice d’appello avrebbe dovuto tener
conto: a) del fatto che il figlio dei coniugi T. – S. era proprietario di immobile sito nello
stesso comune che, però, al momento della disdetta appariva singolarmente e
stranamente condotto in locazione da soggetto terzo; b) del fatto che esso odierno
ricorrente era gravemente malato e, dunque, portatore di un interesse ben più
attuale e concreto di quello manifestato dal locatore, che invece rappresentava un
mero pretesto per riottenere il possesso dell’immobile.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia “erroneità ed illogicità della condanna
alla rifusione a favore del sig. T. dell’indennità di occupazione sine titulo”.
Deduce che “corollario dei precedenti motivi di ricorso è la necessità di cassazione
della condanna stabilita dalla Corte lagunare alla rifusione del danno da asserita
occupazione senza titolo…, in quanto evidentemente ed erroneamente riconosciuta
a favore di:
– un soggetto totalmente privo di legittimazione attiva ad azionare un contratto del
quale lo stesso non era nemmeno parte;
– un soggetto che non era nemmeno proprietario dell’immobile oggetto di causa…
– un soggetto che ha artatamente e maliziosamente fatto ricorso alle prerogative di
cui alla L. n. 431 del 1998, art. 3, per sloggiare una persona malata e sofferente”.
Rileva inoltre che “la sussistenza dei suddetti motivi avrebbe dovuto, quanto meno,
indurre la Corte d’Appello a compensare le spese di lite, in virtù della peculiarità
delle questioni e del comportamento processuale del sig. T.”.
4. Il primo motivo è inammissibile.
Esso ignora totalmente la motivazione a pag. 11-13 della sentenza, che nemmeno
evoca, e pertanto non si fa carico di essa.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un
motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato
dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal
legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la
decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore
occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto
d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo
idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica
della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni
per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono
concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono
prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi
nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di
un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art.
366 c.p.c., n. 4 (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U.
20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n.
16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066;
13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
4.1. E’ appena il caso di evidenziare che, nella specie, all’opposto di quanto
postulato a fondamento del motivo in esame (e ripetuto anche nella illustrazione del
terzo), la corte d’appello ha affermato la validità del contratto di locazione non
perchè l’iniziativa del T. era stata ratificata dalla moglie S.G., sul presupposto che
tale ratifica fosse necessaria per non essere il T. nè parte del contratto nè
proprietario dell’immobile, ma tutto all’opposto ha affermato che – giova ripetere – il
contratto di locazione era valido perchè: a) il T. era parte del contratto quale vero ed
effettivo locatore; b) la sottoscrizione della moglie poteva considerarsi apposta nella
veste di procuratrice del marito e comunque il suo operato doveva considerarsi da
quest’ultimo ratificato; c) non era necessario che il T. fosse anche proprietario
dell’immobile e, in ogni caso, lo era.
5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1. Secondo consolidata interpretazione il diniego di rinnovo di cui alla L. 9
dicembre 1998, n. 431, art. 3, lett. a), al pari dell’analogo istituto previsto dalla L. 27
luglio 1978, n. 392, art. 27, presuppone l’intenzione (ma non anche la necessità) del
locatore di disporre dell’immobile per uno degli usi previsti dalla norma; l’intenzione
deve essere seria, cioè realizzabile giuridicamente e tecnicamente, ma non è
sindacabile nel suo contenuto di merito, non potendo il giudice interferire sull’utilità o
sulla convenienza della divisata destinazione per il locatore (Cass. 21/01/2010, n.
977; v. anche Cass. 18/05/2010, n. 12127 secondo cui “in tema di locazione di
immobili adibiti ad uso abitativo, il meccanismo sanzionatorio predisposto dalla L. n.
431 del 1998, art. 3, con riferimento al diniego di rinnovo alla prima scadenza è da
considerarsi tale, sia per la sua automaticità sia per la sua gravità (avuto riguardo
alle conseguenze pregiudizievoli che subisce il locatore in caso di inadempimento,
come previste dello stesso art. 3, comma 3 della citata Legge), da lasciar presumere
che il locatore, il quale deduca una delle intenzioni ritenute dalla suddetta legge
(come contemplate del medesimo art. 3, comma 1) meritevoli di considerazione, non
invochi maliziosamente e superficialmente la particolare intenzione addotta a
sostegno del formulato diniego, a meno che non emergano concreti elementi che
inducano il giudice a ritenere l’intenzione dedotta irrealizzabile”).
Per legittimare il mancato rinnovo del rapporto da parte del locatore, è quindi
sufficiente la semplice manifestazione di volontà di destinare l’immobile ad
abitazione o a luogo di lavoro, propri o di un proprio familiare, senza ulteriori
formalità, fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione
alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al
risarcimento di cui del citato art. 3, comma 3, nell’eventualità in cui il locatore non
abbia adibito l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine
di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità (Cass.
10/12/2009, n. 25808).
5.2. Le considerazioni svolte a fondamento del ricorso, circa il potere/dovere del
giudice di operare un equo contemperamento degli interessi delle parti (validità
sostanziale della disdetta) non hanno, dunque, giuridico fondamento.
E’ appena il caso di soggiungere che, peraltro, le stesse sono basate su dati fattuali,
quelli almeno che riguardano le condizioni di salute del conduttore, che non
emergono dalla sentenza impugnata e non hanno dunque costituito oggetto di
accertamento di fatto del quale, nella pur qui negata ipotesi di una loro rilevanza,
possa eventualmente tenersi conto ai fini della somministrazione della corretta
regola di giudizio applicabile.
6. Il terzo motivo è inammissibile, con riferimento ad entrambe le censure che al suo
interno sono svolte.
6.1. La prima investe, infatti, una statuizione – quella della condanna al pagamento di
somme a titolo di indennizzo per occupazione sine titulo – che non si rinviene nella
sentenza d’appello, la quale si è limitata a confermare il capo 2 della sentenza di
primo grado (contenente la condanna al rilascio dell’immobile).
Mette conto sul punto rilevare che, per vero, la corte d’appello avrebbe dovuto
occuparsi della statuizione di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione
per dichiararne la caducazione quale effetto espansivo interno, ai sensi dell’art. 336
c.p.c., della riforma della sentenza di primo grado; avrebbe poi dovuto anche
valutare, alla luce di essa, se fosse possibile qualificare la relativa domanda di
controparte come riferita ai canoni dovuti in forza del riconosciuto valido contratto di
locazione.
Non avendo fatto ciò, la corte di merito è, verosimilmente, incorsa in una omissione
di pronuncia, di cui si doveva però lamentare la controparte.
Ne discende che la censura svolta all’opposto dal ricorrente non solo impugna, come
detto, una statuizione inesistente, ma ignora l’effetto dell’art. 336 c.p.c., comma 1.
6.2. La seconda suppone un potere di sindacato (sulla mancata compensazione
delle spese) che questa Corte non ha.
E’ pacifico indirizzo, infatti, quello secondo il quale esula dal sindacato di legittimità e
rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità
della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, essendo la
statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito sindacabile in sede di legittimità
nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche
parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa – ipotesi nella specie non
ricorrente – o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con
motivazione illogica o erronea (Cass. n. 3272 del 07/03/2001 e successive
numerose conformi).
E’ stato anche precisato che “in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la
compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il
quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di
tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche
se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può
essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di
motivazione” (Cass. Sez. U. 15/07/2005, n. 14989).
7. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
8. Non avendo gli intimati svolto difese, non v’è luogo a provvedere sul regolamento
delle spese del presente giudizio di legittimità.
9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da
parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-
quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un
ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il
ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello
previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della
Corte Suprema di Cassazione, il 17 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2022