Ripartizione in quote uguali delle spese condominiali

CORTE DI CASSAZIONE
Sez. VI, ord. 7.10.2019, n. 24925

Fatti di causa e ragioni della decisione
La S. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in unico motivo, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 595/2018 del 23 febbraio 2018.
Resiste con controricorso il Condominio ….
La S. s.r.l. impugnò con ricorso del 26 novembre 2010 la deliberazione dell’assemblea 29 ottobre 2010 del Condominio …, che aveva approvato il rendiconto 2009 ed il relativo stato di ripartizione delle spese. Il Tribunale di Palermo, sezione distaccata di Carini, con sentenza del 12 novembre 2012, respinse l’impugnazione, affermando che il riparto delle spese fosse stato operato sulla base del criterio dettato dall’art. 4 del regolamento condominiale del 22 marzo 1989 (“tutte le spese per l’uso ed il godimento delle parti comuni verranno sopportate dai condòmini proprietari in ragione di 1/14 ciascuno …”), tenuto peraltro conto dell’aumento del numero delle quote (da 14 a 16) derivante dal frazionamento in distinte proprietà di alcune delle originarie unità immobiliari. La Corte d’Appello ha confermato la bontà dell’interpretazione dell’art. 4 del regolamento condominiale del 1989 e della delibera del 22 febbraio 2003 seguita dal primo giudice, come volti a suddividere le spese per quote uguali, giacché correlate a vantaggi di cui i condòmini abbiano beneficiato indistintamente. Ad avviso dei giudici di secondo grado, il riferimento testuale alla frazione di 1/14 non determinava le quote condominiali di partecipazione alle spese, ma intendeva stabilire la ripartizione tra tutti i condòmini proprietari avendo riguardo al numero di quell’epoca, sicché “l’aumento del numero dei proprietari giustifica la nuova ripartizione dell’intero”.
L’unico motivo di ricorso della S. s.r.l. denuncia la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, genericamente così indicate, nonché l’omesso esame di fatto decisivo. Tutta la censura ruota sull’interpretazione dall’art. 4 del regolamento condominiale del 22 marzo 1989, dovendosi intendere lo stesso come finalizzato a dividere le spese in rapporto a quattordici quote, e non al numero degli effettivi proprietari delle singole porzioni immobiliari. Si espone dalla ricorrente come alcuni capannoni, costituenti le unità del Condominio …, siano stati nel tempo frazionati, rimanendone però invariata la dimensione. Il regolamento, del resto, non vieta la suddivisione delle unità immobiliari comprese nel condominio, e ciò può rendere possibile, semmai, una revisione delle tabelle millesimali.
(omissis)
Il ricorso si rivela comunque manifestamente infondato.
I criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall’art. 1123 c.c., possono essere derogati, come prevede la stessa norma, e la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può essere contenuta sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), ovvero in una deliberazione dell’assemblea che venga approvata all’unanimità, o col consenso di tutti i condòmini (ad es., Cass. Sez. 2, 17/01/2003, n. 641).
La natura delle disposizioni contenute negli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. non preclude, infatti, l’adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro gli obblighi dei partecipanti di concorrere agli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli stessi in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà. In assenza di limiti posti dall’art. 1123 c.c., la deroga convenzionale ai criteri codicistici di ripartizione delle spese condominiali può arrivare a dividere in quote uguali tra i condòmini gli oneri generali e di manutenzione delle parti comuni, e finanche a prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condòmini dall’obbligo di partecipare alle spese medesime (Cass., sez. 2, 04/12/2013, n. 27233; Cass. Sez. 2, 25/03/2004, n. 5975; Cass. Sez. 2, 16/12/1988, n. 6844). Come autorevolmente spiegato da Cass. Sez. U, 09/08/2010, n. 18477, la sostanza della «diversa convenzione», ai sensi dell’art. 1123, comma 1, c.c., da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, è, pertanto, quella di una dichiarazione negoziale, espressione di autonomia privata.
(omissis)
La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare le deroghe pattizie al generale criterio di ripartizione delle spese comuni, commisurato alla quota di proprietà di ciascun condomino, comporta che il contenuto e la portata di tale deroga siano evincibili dalle espressioni letterali usate.
L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).
Ne deriva che, a fronte di una clausola del regolamento di condominio, contenente, nella specie, un criterio convenzionale di ripartizione nel senso che “tutte le spese per l’uso ed il godimento delle parti comune verranno sopportate dai condòmini proprietari in ragione di 1/14 ciascuno …”, l’interpretazione secondo cui il riferimento alla frazione di 1/14 non determina la misura della partecipazione delle rispettive proprietà esclusive alle spese, essendo piuttosto diretto a suddividere gli esborsi in parti uguali tra i condòmini, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condòmini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto.
Il ricorso deve, perciò, essere rigettato. Le spese del giudizio di cassazione vengono regolate secondo soccombenza in favore del controricorrente.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 3.700, di cui euro 200 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.