Riprese nello stabile e utilizzo in sede penale

IMPUGNAZIONI IN MATERIA PENALE   –   RAPINA
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-06-2016) 17-06-2016, n. 25307

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PRESTIPINO Antonio – Presidente –
Dott. IMPERIALI Luciano – Consigliere –
Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –
Dott. AGOSTINACCHIO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M.S., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 03/04/2015 della Corte di Appello di Napoli;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Luigi Agostinacchio;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Romano Giulio, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 03/04/2015 la Corte di Appello di Napoli confermava la decisione del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli del 30/10/2014 con la quale a seguito di procedimento con rito abbreviato M.S. era stato condannato alla pena di sei anni, otto mesi di reclusione ed Euro 2.400,00 di multa in quanto ritenuto responsabile di cinque rapine aggravate commesse in (OMISSIS) in danno di donne anziane, all’interno dei rispettivi stabili, con la complicità di una figlia minorenne (reati unificati dal vincolo della continuazione).
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M., tramite il difensore di fiducia sulla base di quattro motivi:
– violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) per inosservanza di norma processuali a pena di nullità in relazione alle immagini estrapolate dalle riprese del sistema di videosorveglianza, utilizzate come prova dai giudici di merito, nonostante le riprese riguardassero luoghi privati, tutelati dalla normativa sulla privacy;
– violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per mancanza o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato in riferimento al trattamento sanzionatorio ed al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4;
– violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per mancanza o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato in riferimento alla diversa qualificazione della condotta (in mancanza di violenza o minaccia doveva ritenersi sussistente l’ipotesi di reato di cui all’art. 624 bis c.p.);
– violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla contestazione dell’aggravante della partecipazione della minore alle rapine.

Motivi della decisione
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce che il giudice di merito ha fondato in modo esclusivo la sentenza di condanna sulle immagini estrapolate da due sistemi di videosorveglianza installati all’interno dei condomini, ritenendo tali prove inutilizzabili perchè acquisite in luoghi di privata dimora, tutelati da una legittima aspettativa di privacy.
Il rilievo – compiutamente esaminato dalla corte territoriale – risulta per un verso in contrasto con i principi, di diritto in materia e per altro addirittura irrilevante ai fini della decisione.
2.1 La giurisprudenza di legittimità, inquadrandosi nei vari interventi relativi all’art. 14 Cost. nonchè all’art. 8 CEDU della Corte Costituzionale (sentenze 135/2002, 149/2008 e 320/2009), ha operato una netta distinzione tra le videoriprese di atti comunicativi, riconducibili alla disciplina delle intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi (mere condotte, che non hanno nessun valore esprimente; sono comunque comunicative, assoggettando così la relative videoriprese alla disciplina delle intercettazioni, tutte quelle condotte che hanno un significato fungibile con la comunicazione verbale/scritta, come un gesto di assentimento o di rifiuto, espressioni fisionomiche ecc), che non rientrano nella qualifica di intercettazioni e, se effettuate in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico, sono utilizzabili come prove atipiche ex art. 189 c.p.p..
Qualora invece le videoriprese di atti non comunicativi siano effettuate in luoghi riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela di cui agli art. 14 Cost. e art. 8 CEDU, la tutela in tal senso di chi è ivi domiciliato ne impedisce l’utilizzazione e, prima ancora, anche l’acquisizione, escludendo l’applicabilità dell’art. 189 c.p.p. in quanto sono qualificabili prove illecite (S.U. 28 marzo 2006 n. 26797). Si tratta, peraltro, della tutela di un diritto disponibile, per cui, qualora le riprese siano effettuate con il consenso del titolare al diritto di tutela del domicilio, si esce da ogni profilo di illiceità, cosicchè la prova, come atipica, risulta utilizzabile senza necessità di autorizzazione dell’autorità giudiziaria (in tal senso Cass. sez. 3, 7 luglio 2010 n. 37197, nonchè Cass. sez. 2, 13 dicembre 2007-10 gennaio 2008 n. 1127 e, da ultimo, in motivazione, Cass. n.25177 del 21/05/2014).
Nel caso in esame, trattasi di videoriprese di un atto non comunicativo – non esprimente cioè alcuna comunicazione, ritraendo solo la condotta del soggetto introdottosi nello stabile condominiale – sì che destinatari della tutela della privacy devono considerarsi esclusivamente i condomini ossia i soggetti che domiciliano in quegli stabili; non potrà certamente lamentarsi della violazione il ricorrente, che non è titolare di alcun diritto alla riservatezza rispetto ai luoghi di privata dimora altrui.
Non sussistono pertanto profili di illiceità, con conseguente piena utilizzabilità della prova.
2.2 Per altro verso le riprese in questione risultano ultronee ai fini dell’affermazione di responsabilità in quanto la sentenza di condanna contrariamente a quanto sostenuto in ricorso – si basa su altre prove, ritenute decisive.
Il tribunale infatti ha argomentato nel senso che “la prova della penale responsabilità è agevolmente desumibile dalle dichiarazioni delle persone offese che, in sede di denuncia, hanno descritto in modo chiaro, preciso e circostanziato la dinamica delle azioni delittuose poste in essere dall’imputato”, trovando fondamento in particolare “nel positivo esito delle ricognizioni fotografiche eseguite dalle vittime, ricognizioni che appaiono particolarmente attendibili sul piano intrinseco soggettivo perchè tutte hanno avuto, per la dinamica dell’azione, un prolungato e ravvicinato contatto visivo con il rapinatore che ha permesso loro di focalizzarne le caratteristiche somatiche e di abbigliamento” (pag. 7 della sentenza di primo grado).
La corte di appello ha confermato tale valutazione (pag. 6 e segg.);
sull’attendibilità delle persone offese non dubita neanche il ricorrente che non ha formulato specifici motivi d’impugnazione a riguardo.
D’altra parte i fotogrammi contestati riguardano solo due delle cinque rapine, per cui è evidente che la tesi accusatoria non poteva trovare riscontro esclusivo nelle riprese del sistema di sorveglianza a presidio degli stabili dove vivevano le parti lese A.R. e C.N..
3. Il terzo motivo attiene alla qualificazione giuridica delle rapine ed è anch’esso all’evidenza privo di fondamento.
Come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, integra il diverso reato di furto con strappo, nel quale la difesa ha chiesto derubricarsi l’imputazione, la condotta di violenza immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, mentre ricorre il delitto di rapina quando la res sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra il possessore e la cosa sottratta.
Nel caso di specie i giudici di merito hanno ben evidenziato l’aggressione fisica posta in essere dal M. (“l’aver messo le mani alla gola della vittima D.R.L., l’aver puntato un oggetto appuntito al collo della vittima A.R., l’aver perpetrato l’aggressione alle spalle di C.N. come l’aver puntato un oggetto appuntito al collo di Ch.
P.”) e la minaccia profusa verso tutte le vittime, con riferimento alle circostanziate dichiarazioni di queste ultime.
La ricostruzione dei fatti, coerenti sul piano logico e basate sulle acquisizioni processuali in atti, sono immuni da censure in sede di legittimità.
Il ricorrente ritiene “preferibili” sul piano probatorio le argomentazioni indicate nell’atto di appello senza considerare che in materia di ricorso per Cassazione perchè sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice deve essere inconfutabile, ovvia e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza.
4. Il secondo ed il quarto motivo riguardano il trattamento sanzionatorio. Eccepisce il ricorrente “l’assoluta assenza di motivazione sulla mancata concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti”.
La corte ha condiviso in realtà le puntuali argomentazioni sul punto del punto del tribunale che ha negato la riduzione di pena “in considerazione delle gravi modalità e circostanze dei fatti e della trasgressiva personalità dell’imputato”.
Orbene, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in base a peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta.
Nel caso di specie i giudici di merito hanno rilevato (per quanto riguarda le modalità della condotta) che la rapina ai danni di anziane vittime appare, nell’ambito del genus, particolarmente grave;
che le azioni delittuose sono state portate a termine con assoluta spregiudicatezza e pervicacia, servendosi di una delle figlie minori, mettendo a segno plurime rapine con modalità seriali significative di acquisita professionalità nel campo. Quanto al secondo profilo (la personalità dell’imputato), è stato evidenziato che il M., ad onta della sua formale incensuratezza, “non si è fatto alcuno scrupolo di avvalersi di una bambina per portare a compimento i reati da lui programmati, a conferma di una non comune inclinazione a delinquere” (pag. 11 della sentenza di primo grado; in tal senso anche pag. 10 delle sentenza di appello).
La motivazione pertanto è congrua; la difesa al contrario non ha indicato le ragioni che renderebbero il ricorrente meritevole della riduzione di pena.
Per quanto riguarda l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 – esclusa dalla corte territoriale per la gravità dei fatti – la censura risulta del tutto generica in quanto non si concreta in specifiche censure al ragionamento del giudice di merito.
Anche il rilievo sull’aggravante della partecipazione del minore ai delitti è aspecifico, incentrandosi sull’apodittica affermazione dell’inosservanza a riguardo dell’onere motivazionale, a fronte dei precisi riferimenti di entrambi i giudici di merito (pag. 11 della sentenza di primo grado – pag. 9 della sentenza di appello).
5. Per le suesposte ragioni il ricorso va dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione d’inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro 1.500,00 (millecinquecento) a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2016.
Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2016