Servitù sulle parti comuni

CORTE DI CASSAZIONE
Sez. II civ., ord. 12.9.2019, n. 22773

Rilevato che:
il presente giudizio di legittimità trae origine dal ricorso proposto da G.C. e R.R. nei confronti di S.D. e M.M., avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 754 del 2015 con la quale, in parziale riforma della sentenza di prime cure emessa dal Tribunale di Ragusa, detta Corte condannava gli odierni ricorrenti al ripristino della tubazione di scarico dell’acqua piovana all’interno del loro immobile ed alla eliminazione della struttura di legno, meglio descritta nella CTU, o ad arretrarla fino a distanza di metri tre dalla soglia della finestra dell’immobile dei resistenti;
il contenzioso tra le parti aveva, infatti, riguardato la domanda dei coniugi S.D. e M.M., proprietari di un immobile posto al primo piano di un edificio, affinché i coniugi G.C. e R.R., proprietari della sottostante unità immobiliare, venissero condannati ad eliminare la pavimentazione eseguita nello spazio esterno perché costruita in violazione della prescritta destinazione a verde del cortile nonché a rimuovere la tettoia edificata senza rispetto delle distanze legali dalla loro veduta e, infine, al ripristino della tubazione di scarico delle acque piovane che prima della modifica scaricava sul pavimento dell’ingresso dei convenuti e che era stata da questi spostata in altro fondo;
la cassazione della pronuncia d’appello è chiesta sulla base di due motivi cui resistono con controricorso i coniugi S.D. e M.M.;

Considerato che:
(omissis)
con il primo motivo parte ricorrente denuncia, in relazione all’articolo 360 comma 1, n.3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 2697 cod. civ. e degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ. e degli artt. 908, 1027, 1028, 1068 e art. 113 del decreto legislativo 152/2006, in materia di smaltimento di acque piovane, per avere il giudice d’appello errato nel ritenere sussistente una servitù di scolo dell’acqua piovana a favore del fondo dei coniugi S.D. e M.M. ed a carico di quello dei coniugi G.C. e R.R., con il trasferimento arbitrario da parte di questi ultimi della servitù nel fondo di un terzo;
sostengono i ricorrenti che non vi era alcun riscontro probatorio (documentale o testimoniale) dell’esistenza di tale servitù;
il motivo è infondato; la doglianza muove dal rilievo che “nell’atto di compravendita dell’immobile di proprietà dei ricorrenti, allegato nel fascicolo del giudizio di primo grado, non vi è menzione alcuna della presunta servitù”, ma si tratta di censura generica perché non considera che non è necessario che la costituzione di una servitù risulti da un contratto, nei casi in cui questa possa, ad esempio, essere stata costituita dal padre di famiglia ai sensi degli artt. 1031 e 1062 c.c.;
infatti, l’intero edificio, formando oggetto di un unico diritto dominicale, può essere liberamente precostituito nel suo assetto, o modificato dal proprietario, anche in vista delle future vendite dei singoli piani o porzioni di piano;
queste operazioni determinano, da un lato, il trasferimento della proprietà sulle parti comuni (art. 1117 c.c.) e quindi l’insorgere del condominio, e, dall’altro lato, la costituzione, di vere e proprie servitù a vantaggio e a carico delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, secondo lo schema della servitù per destinazione del padre di famiglia (cfr. Cass. sez. 2, Sentenza n. 11287 del 10/05/2018; sez. 2, Sentenza n. 6923 del 07/04/2015);
sul punto motiva correttamente il giudice di merito, facendo anche riferimento alla C.T.U;
inoltre il motivo deve essere rigettato anche perché fa riferimento alle norme sul condominio (non richiamate nella rubrica) e presuppone accertamenti di fatto, ad esempio sull’utilitas della grondaia e sulla destinazione delle acque di scolo, che dal testo della sentenza impugnata non risultano dedotti nel grado di merito, e comunque non valutabili nel giudizio di legittimità;
infine non è pertinente il richiamo dei ricorrenti all’articolo 113 del d. lgs. 152/06, trattandosi di norma che dispone in materia di prevenzione di rischi idraulici e ambientali e che non costituisce una deroga al generale regime giuridico della servitù;
con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ. la  violazione e falsa applicazione degli artt. 812, 900, 902, 907 e 2697 cod. civ. per avere la corte d’appello erroneamente ritenuto la struttura precaria in legno, utilizzata dagli odierni ricorrenti per la collocazione di una tenda da sole, come costruzione avente le caratteristiche di cui all’art. 812 cod. civ. mentre si tratterebbe di una “pergotenda” costituita da elementi leggeri assemblati tra loro e tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione;
il motivo è inammissibile poiché esso, in realtà, censura, nonostante la titolazione come “violazione di legge”, non l’errata ricognizione normativa ovvero l’erronea applicazione delle  fattispecie astratte richiamate nella rubrica, ma, piuttosto, la ricostruzione fattuale che ha condotto al parziale accoglimento dell’appello e che attiene al sindacato discrezionale del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nei circoscritti limiti attualmente consentiti della verifica sulla motivazione dall’articolo 360 comma 1, n.5 cod. proc. civ. (cfr. Cass. sez. un. 8053/2014);
nel caso di specie non viene neppure prospettato l’omesso esame di fatti decisivi rilevanti ed oggetto di discussione fra le parti, ma si contesta la stabilità della tettoia realizzata, che, diversamente da quanto ipotizzato, è una conclusione dettagliatamente e correttamente motivata con riferimento all’illegittimo posizionamento ed al carattere non stagionale della tettoia;
in base a quanto è stato esposto il ricorso deve essere rigettato;
(omissis)

P.Q.M.:
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore dei controricorrenti, liquidate in euro 1700 di cui euro 200 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali ed accessori di legge.