Autoriduzione del canone

Cass. 29 gennaio 2021 n. 2154
1. Con contratto del 9/10/2004 … concesse un proprio immobile sito in (omissis) , costituito da
piano primo e piano seminterrato, in locazione alla (…) s.r.l. perchè lo destinasse ad attività  di bar
caffetteria, verso il pagamento di un canone mensile di Euro 3.000.
Nel dicembre del 2007 intimò alla conduttrice sfratto per morosità  deducendo che questa, per il
periodo marzo/dicembre 2007 (n. 10 mensilità ), aveva versato a titolo di canoni di locazione solo
Euro 15.400,00 invece dei 30.000 dovuti.
(…) s.r.l. vi resistette assumendo di avere legittimamente sospeso il pagamento dei canoni di
locazione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., essendo risultato l’immobile locato inidoneo allo svolgimento
dell’attività  commerciale poichè sprovvisto del cambio di destinazione d’uso e della agibilità .
Evidenziò che il Comune, in data 19/10/2007, aveva notificato due verbali di accertata violazione
amministrativa con i quali aveva contestato l’esercizio dell’attività  di ristorazione nella parte
retrostante del locale, per la mancata certificazione di destinazione d’uso e dell’agibilità
dell’immobile, e dedusse che, a causa delle irregolarità  urbanistico-amministrative, non aveva
potuto utilizzare tutte le parti dello stesso con gravissimi danni per la sua attività  di impresa. Instò,
quindi, per la risoluzione del contratto per inadempimento del locatore.
Il Tribunale di Frosinone rigettò la domanda del (…) ed accolse quella riconvenzionale di (…).
2. Tale decisione è stata ribaltata dalla Corte d’appello di Roma che, con la sentenza in epigrafe – in
parziale accoglimento del gravame proposto dal … e proseguito, dopo la sua morte, dai suoi eredi
(…) e (…) – ha dichiarato risolto per inadempimento della conduttrice il contratto di locazione e ha
condannato (…) al pagamento, in favore degli appellanti, della complessiva somma di Euro
86.100,00, con gli interessi legali dalle singole scadenze, a titolo di canoni di locazione insoluti dal
mese di marzo 2007 sino al febbraio 2010, con esclusione del periodo 13/5/2008 – 18/7/2008 di
forzata sospensione dell’attività .
La Corte territoriale ha rilevato in motivazione che:
– con scrittura privata sottoscritta in data 9/11/2006 la conduttrice si era impegnata, ricevendo le
chiavi del locale seminterrato, a versare dal mese di ottobre 2006 l’intero canone contrattuale di
Euro 3.000 mensili, “senza attendere ulteriormente… l’ottenimento del cambio d’uso dei locali”,
ritenendo fondamentale e propedeutica la realizzazione dell’impianto elettrico;
– da tale pattuizione emerge, senza ombra di dubbio, che, quantomeno dal momento della
sottoscrizione di detta scrittura integrativa (9/11/2006), la (…) era pienamente a conoscenza che non
era stato ottenuto il cambio di destinazione d’uso dell’immobile ed aveva, nondimeno, accettato di
pagare l’intero canone di locazione pattuito;
– quanto, invece, alla mancanza di mutamento di destinazione d’uso e di agibilità  della parte
retrostante il locale a piano terra adibito a ristorante (in relazione alla quale il comune aveva
emesso, il 13/5/2008, ordinanza di sospensione temporanea dell’attività  per un abuso edilizio già
contestato nel 1984), anche a voler ritenere che la carenza di detto requisito amministrativo potesse
costituire un vizio del bene in quanto necessario per la sua legale destinazione all’uso convenuto,
non poteva “revocarsi in dubbio che, trattandosi di vizio sopravvenuto (essendo il rapporto locativo
in corso dall’ottobre 2004), la (…) poteva, ai sensi degli artt. 1578 e 1580 c.c., chiedere la
risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo” e che, “non avendo fatto ciò ed essendo
pacifico che la medesima (fosse) sempre rimasta nella disponibilità  dell’immobile,… era tenuta al
pagamento dei canoni nella misura contrattualmente convenuta”;
– “gli appellanti (avevano assunto) che la società  conduttrice (aveva) sempre utilizzato l’immobile,
svolgendovi l’attività  commerciale, anche successivamente alla contestazione di mancato
mutamento di destinazione e di agibilità  del locale, come dimostrato dalla documentazione
depositata in atti, e che (aveva) cessato l’attività  commerciale solo il 13/5/2008 a seguito della
notifica dell’ordinanza comunale n. 33 e non l'(aveva) più ripresa neppure successivamente alla
sospensione del provvedimento disposta dal TAR Lazio, abbandonando di fatto l’immobile, senza
riconsegnarlo al proprietario” e “tali circostanze non (risultavano) espressamente contestate”;
– non vi era, peraltro, alcun dubbio in ordine al fatto che la (…), dal mese di ottobre 2006 al mese di
febbraio 2007, aveva corrisposto l’intero corrispettivo pattuito e ciò confermava che la medesima
aveva pienamente utilizzato l’immobile, sia per quanto riguarda il locale posto al piano terra che
quello posto al piano seminterrato e che la predetta, al momento della notificazione da parte del
comune dei due verbali di accertata violazione amministrativa (nn. 53 e54), versasse già  in stato di
conclamata insolvenza da oltre sette mesi;
– la società  conduttrice era sempre rimasta nella detenzione e nell’utilizzo dell’intero immobile
senza fornire alcuna prova di non aver potuto esercitare la propria attività  commerciale nell’intero
locale, ragione per cui era tenuta, ad eccezione del periodo di forzata chiusura disposta dal Comune
di Ferentino, a corrispondere l’intero canone pattuito.
5. Avverso tale decisione la (…) S.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui
resistono gli intimati, depositando controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Considerato in diritto
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., per avere la
Corte d’appello disatteso l’eccezione di inammissibilità  della domanda nuova proposta in sede di
gravame, tale, in tesi, dovendo considerarsi quella dell’appellante poichè diretta a ottenere la
risoluzione del contratto di locazione di immobile, per la prima volta in quella sede descritto come
avente destinazione commerciale.
2. La censura – al di là  dell’improprio riferimento nell’intestazione a norme processuali delle quali
non è illustrata e, comunque, non è ravvisabile la pertinenza rispetto all’assunto censorio – è
inammissibile.
Essa infatti non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non sta
nell’accertamento della effettiva sussistenza di quella destinazione urbanistica dell’immobile (uso
commerciale), quanto piuttosto, e ben diversamente, nel rilievo che, pur risultando indimostrato il
conseguimento di quella destinazione e, conseguentemente, dell’agibilità , in tutto o in parte,
dell’immobile, nondimeno il suo utilizzo da parte del conduttore rendeva ingiustificato
l’inadempimento dell’obbligo sullo stesso gravante di corrispondere il canone.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
“violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 2697 e 1362 e ss., artt. 1337, 1375,
1453 e 1460 c.c. e artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c.”, per avere la Corte d’appello posto a base della
decisione fatti e circostanze non risultanti allo stato degli atti, assumendo che il difetto di agibilità  e
di destinazione d’uso del locale, oggetto del contratto di locazione, non impediva l’utilizzo
dell’immobile.
Deduce che, al fine di verificare la fondatezza della exceptio non rite adimpleti contractus e la
gravità  dell’inadempimento imputabile al locatore, la Corte d’appello avrebbe dovuto analizzare il
contenuto del contratto di locazione, sottoscritto dalle parti, interpretarlo ed individuare quali
fossero gli interessi dedotti dalle parti.
Rimarca al riguardo che era incontestato che l’immobile era stato locato per essere destinato, nella
sua interezza, ad attività  di somministrazione di bevande e di ristorazione: donde la censura di
inosservanza dell’art. 115 c.p.c. per non avere il giudice a quo tenuto conto di tale non
contestazione.
Censura – siccome, in tesi, inosservante del disposto degli artt. 115 e 116 c.p.c. – il rilievo secondo
cui non sarebbe stata offerta alcuna prova dell’affermata impossibilità  di esercitare l’attività
commerciale nell’intero locale, affermando che tale prova doveva, invece, ricavarsi dalla
documentazione in atti.
Lamenta inoltre l’erronea valorizzazione, a fondamento della decisione, del contenuto dell’accordo
integrativo sottoscritto dalle parti nel 2006, rilevando al riguardo che se era vero che, con quella
scrittura, essa conduttrice, dopo molteplici contestazioni circa la mancata disponibilità  del piano
seminterrato, aveva accettato di pagare l’intero canone di locazione, ciò tuttavia aveva fatto
realizzando anche l’impianto elettrico del locale, cui era contrattualmente tenuta – solo perchè tale
realizzazione veniva ritenuta propedeutica al cambio di destinazione d’uso e alla concessione della
agibilità  del locale, poi però ugualmente non ottenuto.
Con riferimento, infine, alle valutazioni svolte in sentenza circa la violazione urbanistica contestata
al locatore nel 1984, osserva che si trattava di un abuso ulteriore rispetto a quelli già  censurati e
provati documentalmente, oltre che di circostanza sottaciuta all’epoca della sottoscrizione del
contratto, in violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede durante le trattative imposto
dall’art. 1337 c.c..
3. La censura è fondata nei termini appresso precisati.
3.1. Occorre anzitutto rilevare l’erroneità , in iure, del postulato che è posto a base della decisione
impugnata, secondo cui la conduttrice non ha fornito prova di non aver potuto esercitare la propria
attività  commerciale nell’intero locale.
Evidente, sul punto, l’applicazione di un erroneo criterio di riparto dell’onere probatorio.
Occorre invero al riguardo rilevare che, in coerenza con il generale criterio di riparto dell’onere
probatorio in tema di responsabilità  da inadempimento delle obbligazioni contrattuali (v. Cass. Sez.
U. 30/10/2001, n. 13533), a fronte dell’eccezione di inadempimento opposta dal conduttore,
spettava al locatore dimostrare di avere correttamente e pienamente adempiuto all’obbligo di
rendere l’immobile locato pienamente idoneo all’uso pattuito.
L’exceptio non rite adimpleti contractus integra, invero, un fatto impeditivo dell’altrui pretesa di
pagamento avanzata, nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di
inadempimento dello stesso creditore, con la conseguenza che il debitore potrà  limitarsi ad allegare
l’altrui inadempimento, gravando sul creditore l’onere di provare il proprio adempimento ovvero la
non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione (v. Cass. 22/11/2016, n. 23759).
3.2. Ciò posto, altrettanto erronee o inconferenti si appalesano le altre considerazioni svolte in
sentenza circa l’inidoneità  del mancato ottenimento del certificato di mutamento di destinazione
d’uso e di agibilità  del locale a costituire valida giustificazione della sospensione prima parziale e
poi totale del pagamento del canone, in presenza, comunque, di emergenze che deponevano per il
suo utilizzo, quanto meno parziale, da parte del conduttore.
Con riferimento alle condizioni che legittimano il conduttore a sospendere, in tutto o in parte, il
pagamento del canone, deve ormai ritenersi abbandonato, nella più recente giurisprudenza di questa
Corte (v. Cass. 26/07/2019, n. 20322; Cass. 25/06/2019, n. 16917 e n. 16918; Cass. 22/09/2017, n.
22039; ma v. già  anche Cass. 11/02/2005, n. 2855), l’orientamento più rigoroso che, con riferimento
al rapporto locativo, ritiene legittima la sospensione, anche parziale, della prestazione gravante sul
conduttore solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte (v., per
tale indirizzo, Cass. 01/06/2006, n. 13133; 23/04/2004, n. 7772; 18/06/1999, n. 6125; 05/10/1998,
n. 9863; 17/05/1983, n. 3411; 23/05/1962, n. 1172).
Tale orientamento non trova fondamento nell’art. 1460 c.c., costantemente interpretato quale mezzo
di autotutela, che attiene alla fase esecutiva del contratto e non mira, come la risoluzione, allo
scioglimento del vincolo, ma anzi ne presuppone la permanenza.
Si è in tal senso rammentato – sulla scorta e in continuità  con consolidata giurisprudenza (da ultimo
v. Cass. 29/03/2019, n. 8760) – il rilievo che, nell’istituto della sospensione dell’adempimento
regolato dall’art. 1460 c.c., assume il principio di correttezza e buona fede oggettiva ex artt. 1175 e
1375 c.c., al quale del resto fa esplicito rimando l’art. 1460, comma 2 là  dove correla alla
considerazione delle circostanze del caso concreto la valutazione della legittimità  della sospensione
secondo “buona fede”: correlazione che – si è osservato – non altrimenti può concretizzarsi se non
nella “commisurazione del rilievo sinallagmatico delle obbligazioni coinvolte”, ossia nella
“proporzionalità ” dei rispettivi inadempimenti (da valutare non in rapporto alla rappresentazione
soggettiva che le parti se ne facciano, ma in relazione alla oggettiva proporzione degli
inadempimenti stessi, riguardata con riferimento all’intero equilibrio del contratto ed alla buona
fede: v. Cass. n. 2855 del 2005, cit.; Cass. 09/08/1982, n. 4457; 22/01/1985, n. 250; 20/06/1996, n.
5694).
Per stabilire in concreto, dunque, se l’eccezione di inadempimento sia stata sollevata in buona fede
oppure no, è altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il giudice di merito deve
verificare “se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione
economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in
rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e
proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (Cass. 04/02/2009, n. 2720; v.
anche Cass. 10/11/2003, n. 16822).
Ebbene, non vi è alcun dato positivo nè ragione logica o sistematica che impongano di adottare,
con riferimento al contratto di locazione, una interpretazione diversa ovvero una versione per così
dire più limitata di tale strumento di autotutela e dei relativi presupposti.
àˆ evidente piuttosto che detti criteri di buona fede e proporzionalità  sinallagmatica che concretano
il funzionamento dell’istituto verrebbero traditi ove, pur in presenza di accertati inadempimenti del
locatore, ancorchè non tali da escludere ogni possibilità  di godimento dell’immobile, non si
ammettesse una “proporzionale” sospensione della prestazione di controparte, ma se ne richiedesse
al contrario l’integrale adempimento.
3.3. Nel caso di specie, le valutazioni svolte dalla Corte di merito non risultano coerenti con detti
criteri e palesano pertanto una erronea e comunque insoddisfacente qualificazione giuridica della
fattispecie concreta.
Tanto in particolare deve affermarsi con riferimento al rilievo secondo cui l’abuso amministrativo
che, già  contestato nel 1984, aveva portato nel 2008 alla emissione di ordinanza di sospensione
dell’attività  commerciale, avrebbe solo potuto giustificare la domanda di risoluzione del contratto o
di riduzione del corrispettivo ai sensi degli artt. 1578 e 1580 c.c., non anche, una volta che quei
rimedi non erano stati esperiti, alla sospensione del pagamento dei canoni.
Appare evidente infatti che, se in astratto si riconosce l’esperibilità  di quella più radicale scelta
negoziale della risoluzione del contratto, per la ricorrenza dei presupposti ivi previsti, a maggior
ragione, come il più comprende il meno, deve anche riconoscersi la legittimità  della sospensione,
della propria controprestazione, trattandosi di rimedio meno radicale, consentito dalla legge in via
di autotutela nella fase esecutiva del contratto, alla parte non inadempiente, in presenza dei
medesimi presupposti (e anzi addirittura meno gravi, posto che l’art. 1460 c.c., comma 1, non
richiede la gravità  dell’inadempimento).
4. In accoglimento del secondo motivo, la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al
giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso per quanto di ragione, nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza in
relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui
demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità .