Demolizione e condono edilizio

Cass. SS.UU. 14 aprile 2021 n. 9839

SENTENZA
sul ricorso 19801-2015 proposto da:
P.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via (omissis), presso lo studio dell’avvocato P.S.,
rappresentato e difeso dall’avvocato N.P.;
– ricorrente –
contro
CONDOMINIO S. DELL”EDIFICIO SITO IN (omissis) in viale (omissis) nn. (omissis) in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato a roma, Via (omissis) n. (omissis),
presso lo studio dell’avvocato M.D., rappresentato e difeso dall’avvocato M.P.;
– controricorrente –
nonché contro
S.P.;
– intimato –
Avverso la sentenza n. 22/2015 della Corte di Appello di Messina, depositata il 20/01/2015.
Udita la relazione della causa svolta, nella pubblica udienza del 06/10&2020, dal Presidente
L.G.L.;
Udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale L.S., che ha concluso per il rigetto
del ricorso;
Uditi gli avvocati P.S., per delega dell’avvocato N.P., e M.D., per delega dell’avvocato M.P.

FATTI DI CAUSA
1. – Su ricorso del condominio S. dell’edificio sito in (omissis) viale (omissis) nn. (omissis), il
Tribunale di quella città emise decreto col quale ingiunse a P.G. il pagamento della somma di lire
12.720.485 (ora euro 6.569,58), pari ad un terzo delle spese dei lavori di rifacimento e di
impermeabilizzazione del lastrico solare dell’edificio condominiale, poste a carico dell’ingiunto –
con deliberazioni dell’assemblea dei condomini del 14 settembre, del 30 settembre e del 14
dicembre 1999 – nella misura di cui all’art. 1126 cod. civ., sul presupposto che il P. avesse l’uso
esclusivo del manufatto.
Il P. propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo e ne chiese la revoca, deducendo: che
nessuna delle deliberazioni assembleari poste a fondamento del decreto avrebbe disposto la
ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare secondo il criterio di cui all’art. 1126 cod.
civ. (un terzo a carico dei condomini che ne hanno l’uso esclusivo, due terzi a carico degli altri); che
la deliberazione del 14 dicembre 1999 sarebbe stata affetta da nullità per mancata comunicazione
dell’avviso di convocazione dell’assemblea; che, in ogni caso, le spese afferenti il lastrico solare
avrebbero dovuto essere ripartite secondo le quote millesimali, come previsto dall’art. 1123 cod.
civ., e non secondo il criterio di cui all’art. 1126 cod. civ., in quanto egli, pur essendo proprietario
del lastrico, non ne avrebbe avuto l’uso esclusivo, essendo lo stesso adoperato indistintamente da
tutti i condomini.
Nella resistenza del condominio, che instò per il rigetto dell’opposizione, il giudizio venne riunito,
per connessione oggettiva, al giudizio di opposizione promosso da S.P. (altro condomino
proprietario del lastrico solare) avverso distinto decreto ingiuntivo emesso nei confronti dello stesso
per il pagamento delle quote di contribuzione relative ai medesimi lavori di riparazione.
Il Tribunale di Messina rigettò entrambe le opposizioni, ritenendo legittima la ripartizione delle
spese operata secondo il criterio di cui all’art. 1126 cod. civ.
1. – Sul gravame proposto in via principale da P.G. e in via incidentale da S.P., la Corte di
Appello di Messina, con sentenza n. 22 del 2015, dichiarò la cessazione della materia del
contendere relativamente alla controversia instaurata dal Saija nei confronti del condominio
e rigettò l’appello del Previti, confermando nei suoi confronti la sentenza di primo grado.
Per quanto in questa sede rileva, innanzitutto la Corte territoriale escluse la sussistenza della
pretesa nullità del giudizio di primo grado per la mancata comunicazione dell’ordinanza
adottata fuori udienza il 31 maggio 2006, osservando che il difensore del P. aveva
comunque preso parte all’udienza fissata da tale ordinanza per la precisazione delle
conclusioni, anche se non aveva dedotto alcunché e si era allontanato dall’aula.
Quanto alle doglianze sul merito della lite, la Corte di Messina osservò che la imposizione al
P. – quale proprietario del lastrico solare – della quota di un terzo delle spese di rifacimento
del manufatto, trovava fondamento nella deliberazione dell’assemblea dei condomini del 14
dicembre 1999, la quale non era stata impugnata, e che la deduzione della nullità o
annullabilità di tale deliberazione, per violazione dei criteri di riparto delle spese di cui agli
artt. 1123 e 1126 cod. civ. (anche per quanto riguardava i lavori di restauro dei torrini e delle
scarpe di piombo dell’edificio condominiale), doveva ritenersi preclusa nel giudizio di
opposizione al decreto ingiuntivo, il cui oggetto non poteva estendersi all’esame delle
questioni relative alla invalidità della deliberazione di approvazione della spesa intimata.
2. – Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Previti Giacomo sulla base di
cinque motivi.
Ha resistito con controricorso il condominio S. S.P., ritualmente intimato, non ha svolto
attività difensiva in questa sede.
3. – All’esito dell’udienza pubblica del 10 settembre 2019, la Seconda Sezione Civile di questa
Corte, con ordinanza interlocutoria n. 24476 del 1° ottobre 2019, ha disposto la trasmissione
degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
L’ordinanza interlocutoria ha rilevato come le questioni della nullità delle deliberazioni
dell’assemblea dei condomini e della estensione dell’oggetto del giudizio di opposizione a
decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di oneri condominiali fossero state oggetto di
plurime pronunce difformi delle Sezioni semplici; ha perciò ritenuto opportuna la decisione
del ricorso da parte delle Sezioni Unite al fine di comporre il contrasto di giurisprudenza in
atto, evidenziando altresì come le questioni da decidere presentassero i caratteri di
“questioni di massima di particolare importanza”.
4. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., che
sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
5. – Sia il ricorrente che il controricorrente hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc.
civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE
6. – Col primo motivo di ricorso, si deduce la violazione degli artt. 136, 156, 161, 170 e 176
cod. proc. civ., nonché la nullità della sentenza impugnata, per non essere stata comunicata,
ai procuratori del P., l’ordinanza resa fuori udienza il 31 maggio 2006, con la quale il giudice
aveva dichiarato inammissibili le richieste istruttorie delle parti ed aveva disposto il rinvio
della causa per la precisazione delle conclusioni.
La censura è infondata, risultando la dedotta nullità sanata per il raggiungimento dello scopo
dell’atto.
Se è vero infatti, in astratto, che la mancata comunicazione, alla parte costituita,
dell’ordinanza istruttoria pronunciata dal giudice fuori udienza – secondo quanto prescrive
l’art. 176, secondo comma, cod. proc. civ. – determina la nullità dell’ordinanza stessa e degli
atti successivi dipendenti (ivi compresa la sentenza) per difetto dei requisiti indispensabili
per il raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, secondo comma, cod. proc. civ. (cfr.
Cass., Sez. 3, n. 8002 del 02/04/2009; Cass., Sez. 3, n. 1283 del 29/01/2003); è parimenti
vero che, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., «La nullità non può mai essere
pronunciata se l’atto ha raggiunto io scopo a cui è destinato».
Nella specie, la Corte territoriale ha spiegato che, nonostante la mancata comunicazione ai
difensori del Previti dell’ordinanza resa fuori udienza, uno dei due procuratori
dell’opponente prese parte all’udienza di precisazione delle conclusioni tenutasi il 20 marzo
2007; in tale sede il procuratore della parte non ebbe a chiedere alcun termine o rinvio né
ebbe a formulare alcuna istanza, neppure lamentò alcun pregiudizio per la difesa derivato
dalla mancata ricezione della comunicazione dell’ordinanza che aveva fissato l’udienza;
semplicemente il difensore, invitato dal giudice a precisare le conclusioni, preferì
allontanarsi dall’aula. Esattamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto sanata la nullità
dell’ordinanza emessa fuori udienza per raggiungimento dello scopo dell’atto.
Deve infatti ritenersi che, quando la parte, alla quale non sia stata comunicata l’ordinanza
pronunciata fuori dell’udienza, abbia egualmente, per altre vie, avuto conoscenza
dell’udienza di rinvio ed abbia partecipato alla stessa, senza dedurre specificamente
l’eventuale pregiudizio subito per la sua difesa a causa della mancata comunicazione e senza
formulare istanze dirette ad ottenere un rinvio ad altra udienza, la nullità risulta sanata per
raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., essendosi
comunque conseguito lo scopo della prosecuzione del processo con la partecipazione di tutte
le parti in contraddittorio tra loro (cfr. Cass., Sez. 2, n. 3774 del 16/04/1987, nonché Cass.,
Sez. 1, n. 2810 del 28/03/1997, in tema di nullità, per mancata comunicazione alle parti, del
decreto di sostituzione del giudice istruttore e del rinvio d’ufficio dell’udienza davanti
all’istruttore stesso, alla quale tutte le parti avevano comunque partecipato senza sollevare
contestazioni).
Sul punto, va enunciato, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., il seguente
principio di diritto:
«La mancata comunicazione alla parte costituita, a cura del cancelliere – ai sensi dell’art.
176, secondo comma, cod. proc. civ. – dell’ordinanza istruttoria pronunciata dal giudice fuori
dell’udienza provoca la nullità dell’ordinanza stessa e la conseguente nullità, ai sensi dell’art.
159 cod. proc. civ., degli atti successivi dipendenti, a condizione che essa abbia
concretamente impedito all’atto il raggiungimento del suo scopo, nel senso che abbia
provocato alla parte un concreto pregiudizio per il diritto di difesa; se la parte abbia
comunque avuto conoscenza dell’udienza fissata per la prosecuzione del processo ed abbia
partecipato ad essa senza dedurre specificamente l’eventuale pregiudizio subito per il diritto
di difesa e senza formulare istanze dirette ad ottenere il rinvio dell’udienza, la nullità deve
ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo dell’atto, ai sensi dell’art. 156, terzo comma,
cod. proc. civ.».
7. – Col secondo motivo, si deduce la violazione degli artt. 633 cod. proc. civ., 1135, 1136 e
1137 cod. civ., 63 disp. att. cod. civ., nonché l’insufficiente, incongrua e incoerente
motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte di Appello erroneamente
interpretato la deliberazione assembleare del 14 dicembre 1999, ritenendo che essa avesse
disposto la ripartizione delle spese relative al rifacimento della terrazza secondo il criterio di
cui all’art. 1126 cod. civ.
Il motivo risulta, nel suo complesso, inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, le deliberazioni dell’assemblea del
condominio devono essere interpretate secondo i canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362
e segg. cod. civ., privilegiando, innanzitutto, l’elemento letterale e, nel caso in cui tale
elemento risulti insufficiente, gli altri criteri interpretativi sussidiari indicati dalla legge, tra
cui quelli della valutazione del comportamento delle parti e della conservazione degli effetti
dell’atto, che impongono all’interprete di attribuire alle espressioni letterali usate un qualche
effetto giuridicamente rilevante anziché nessun effetto o un significato meramente
programmatico (ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 4501 del 28/02/2006; Cass., Sez. 2, n. 28763
del 30/11/2017); l’interpretazione delle deliberazioni dell’assemblea condominiale spetta al
giudice del merito e costituisce apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità,
purché risulti giustificato da motivazione immune da errori giuridici e da vizi logici (per
tutte, Cass., Sez. 2, n. 12556 del 27/08/2002). I vizi logici della sentenza, peraltro, sono
ormai sindacabili in cassazione solo nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5
cod. proc. civ. (introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012),
applicabile ratione temporis, che ha escluso il sindacato sulla “sufficienza” della
motivazione, riducendo il controllo di legittimità sul giudizio di fatto al sindacato
sull’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio» e sulla apparenza o manifesta
illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053 del 07/04/2014).
Nella specie, per un verso, il ricorrente non ha lamentato la violazione di alcuno dei canoni
ermeneutici dettati dagli artt. 1362 e segg. cod. civ.; per altro verso, la motivazione della
sentenza impugnata sul punto risulta non apparente né viziata da manifesta illogicità.
Il motivo, in realtà, si risolve in una critica dell’esito dell’interpretazione cui è pervenuta la
Corte di Appello e nella sollecitazione di una interpretazione alternativa; si tratta, perciò, di
una censura di merito, che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
8. – A questo punto, prima di esaminare il terzo e il quarto motivo (che sottopongono le
questioni di diritto in relazione alle quali la decisione del ricorso è stata affidata a queste
Sezioni Unite), va esaminato il quinto motivo, col quale si deduce la violazione degli artt.
115, 116 e 633 cod. proc. civ., 1137 e 2697 cod. civ., 63 disp. att. cod. civ., per avere la
Corte territoriale omesso di considerare che la deliberazione dell’assemblea condominiale
del 14 settembre 1999, posta a fondamento del decreto ingiuntivo, era stata annullata dal
Tribunale di Messina con sentenza n. 794 del 17 marzo 2004; ciò avrebbe determinato la
perdita di efficacia del titolo posto a base della ingiunzione.
Il motivo è inammissibile, non cogliendo esso, né censurando, la ratio decidendi della
sentenza impugnata.
La Corte di Appello, con interpretazione immune da vizi logici e giuridici, ha ritenuto che la
ripartizione delle spese relative al rifacimento della terrazza, secondo il criterio di cui all’art.
1126 cod. civ., fosse stata disposta con la deliberazione assembleare del dicembre 1999,
individuando quest’ultima come idoneo titolo del credito azionato col decreto ingiuntivo.
Risulta, pertanto, irrilevante il fatto che la precedente deliberazione del settembre dello
stesso anno sia stata annullata in sede giudiziale, non potendo tale annullamento incidere sul
diverso titolo posto a fondamento del credito condominiale ed incrinare la ratio decidendi
della impugnata sentenza. Dal che il difetto di interesse alla proposizione della censura.
4. – Rimangono da esaminare il terzo e il quarto motivo di ricorso, che vanno scrutinati
unitariamente in ragione della loro stretta connessione. Si tratta dei motivi in relazione ai
quali l’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione Civile ha rimesso il procedimento al
Primo Presidente perché valutasse l’opportunità di assegnarlo a queste Sezioni Unite.
Con entrambi i motivi, si deduce la violazione degli artt. 1117, 1123 e 1126 cod. civ., in
relazione agli artt. 633 cod. proc. civ. e 63 disp. att. cod. civ., per avere la Corte di Appello
di Messina ritenuto che la dedotta invalidità della deliberazione di ripartizione delle spese,
per violazione dei criteri prescritti dalla legge, non potesse essere delibata nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo – né relativamente alle spese di riparazione del lastrico
solare, del quale il Previti aveva negato di avere l’uso esclusivo (terzo motivo), né
relativamente alle spese di riparazione dei torrini e delle scarpe di piombo dell’edificio
condominiale, pacificamente di uso comune tra i condomini (quarto motivo) – trattandosi di
questione che avrebbe dovuto essere oggetto di separata impugnativa avverso la
deliberazione assembleare.
La Sezione remittente ha ritenuto che, dall’esame del terzo e del quarto motivo, emergessero
tre questioni di massima di particolare importanza, decise in senso difforme dalle Sezioni
semplici, meritevoli di esame da parte delle Sezioni Unite. In particolare, l’ordinanza di
rimessione ha evidenziato la necessità di risolvere le seguenti questioni:
1) «se le deliberazioni dell’assemblea condominiale, con le quali le spese per la gestione
delle cose e dei servizi comuni siano ripartite tra i condomini in violazione dei criteri legali
dettati dagli artt. 1123 e segg. cod. civ. o stabiliti con apposita convenzione, debbano
ritenersi sempre affette da nullità (come tali sottratte al regime di cui all’art. 1137 cod. civ.)
ovvero se le dette deliberazioni possano ritenersi nulle soltanto quando l’assemblea abbia
inteso modificare stabilmente (a maggioranza) i criteri di riparto stabiliti dalla legge o dalla
unanime convenzione, dovendo invece ritenersi meramente annullabili (come tali soggette
alla disciplina dell’art. 1137 cod. civ.) nel caso in cui tali criteri siano soltanto
episodicamente disattesi»;
2) «se, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei
contributi per le spese condominiali, ai sensi dell’art. 63 disp. att. cod. civ., il giudice possa
sindacare le eventuali ragioni di nullità della deliberazione assembleare di ripartizione delle
spese su cui è fondata l’ingiunzione di pagamento ovvero se, invece, la delibazione della
nullità della deliberazione debba essere riservata al giudice davanti al quale la medesima sia
stata impugnata in via immediata nelle forme di cui all’art. 1137 cod. civ.»;
3) «se la statuizione di rigetto dell’opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la
riscossione dei contributi condominiali, sulla base dello stato di ripartizione approvato
dall’assemblea, dia luogo o meno alla formazione di giudicato implicito sull’assenza di cause
di nullità della delibera».
Osservano le Sezioni Unite come non tutti i quesiti posti dall’ordinanza di rimessione
pongano questioni la cui soluzione è necessaria ai fini della decisione del caso sottoposto;
essi, pertanto, verranno esaminati dal Collegio nei limiti della loro rilevanza, ossia in quanto
rappresentino un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione
di principi di diritto utili alla soluzione delle questioni sottoposte con i motivi del ricorso in
esame.
Questa necessaria delimitazione delle questioni da trattare è legata alle funzioni
ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, compito delle quali non è
l’enunciazione di principi generali e astratti o di tesi teoriche su ogni possibile questione di
diritto collegata al caso da decidersi, ma l’enunciazione di quei soli principi di diritto che
risultano necessari alla decisione del caso della vita da decidersi (in questo senso già Cass.,
Sez. Un., n. 12564 del 22/05/2018); basti osservare che lo stesso “principio di diritto
nell’interesse della legge”, che la Corte di cassazione può essere chiamata ad enunciare ai
sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., deve comunque corrispondere alla regola giuridica alla
quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica
controversia.
Ciò premesso, può passarsi all’esame delle questioni sottoposte, nei limiti in cui la soluzione
di esse rilevi ai fini della decisione del ricorso, secondo il loro ordine logico.
9. – La prima questione da esaminare è quella relativa all’estensione del thema decidendum del
giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione degli oneri
condominiali;
si tratta, in particolare, di stabilire se, in tale giudizio, il giudice possa sindacare la validità della
deliberazione assembleare di ripartizione delle spese su cui è fondata l’ingiunzione di pagamento
ovvero se tale sindacato gli sia precluso, per essere riservato ad apposito giudizio avente
specificamente ad oggetto l’impugnazione in via immediata della deliberazione.
A tale quesito, la giurisprudenza di questa Corte ha dato, in un primo momento, risposta negativa,
affermando il principio secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il
pagamento di contributi per le spese condominiali, il condomino opponente non può far valere
questioni attinenti alla validità della delibera condominiale, ma solo questioni riguardanti l’efficacia
della medesima (Cass., Sez. 2, n. 22573 del 07/11/2016; Cass., Sez. 2, n. 17486 del 01/08/2006). In
particolare, si è statuito che il giudice dell’opposizione deve limitarsi a verificare la perdurante
esistenza ed efficacia della delibera assembleare, senza poter sindacare, neppure in via incidentale,
la sua validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale detta delibera sia stata
impugnata (Cass., Sez. Un., n. 26629 del 18/12/2009; nel medesimo senso, Cass., Sez. 2, n. 3354
del 19/02/2016; Cass., Sez. 2, n. 4672 del 23/02/2017; in senso conforme, non massimate: Cass.,
Sez. 2, n. 6436 del 19/03/2014; Cass., Sez. 2, n. 8685 del 28/03/2019; da ultimo Cass., Sez. 2, n.
21240 del 09/08/2019, in motiv.); egli può accogliere l’opposizione solo se la delibera condominiale
abbia perduto la sua efficacia, per essere stata annullata o per esserne stata sospesa l’esecuzione dal
giudice dell’impugnazione (Cass., Sez. 2, n. 19938 del 14/11/2012; Cass., Sez. 6 – 2, n. 7741 del
24/03/2017).
Queste conclusioni, che relegano l’azione di annullamento della delibera assembleare in un separato
giudizio, necessariamente distinto da quello di opposizione al decreto ingiuntivo, sono state
recentemente contraddette da un nuovo indirizzo giurisprudenziale di questa Suprema Corte, che ha
affermato il diverso principio secondo cui, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo
emesso per la riscossione di oneri condominiali, il limite alla rilevabilità d’ufficio dell’Invalidità
della sottostante delibera non opera allorché si tratti di vizi implicanti la sua nullità, in quanto la
validità della delibera rappresenta un elemento costitutivo della domanda di pagamento (Cass., Sez.
2, n. 305 del 12/01/2016; Cass., Sez. 2, n. 19832 del 23/07/2019; nello stesso senso, non massimate:
Cass., Sez. 6-2, n. 22157 del 12/09/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 33039 del 20/12/2018; Cass., Sez. 6-2,
n. 23223 del 27/09/2018).
Le Sezioni Unite ritengono che il primo orientamento debba essere superato, mancando ragioni
sufficienti per negare al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di sindacare la
validità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione; anzi, diverse fondate
ragioni inducono a riconoscere al giudice dell’opposizione il potere di sindacare non solo l’eventuale
nullità di tale deliberazione, ma anche la sua annullabilità, ove dedotta nelle forme e nei tempi
prescritti dalla legge.
In primo luogo, va osservato che, secondo i principi generali, l’opposizione a decreto ingiuntivo
apre un ordinario giudizio di cognizione sulla domanda proposta dal creditore con il ricorso per
ingiunzione, il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità
del decreto stesso, ma si estende all’accertamento dei fatti costitutivi del diritto in contestazione,
ossia al merito del diritto fatto valere dal creditore con la domanda di ingiunzione (Cass., Sez. Un.,
n. 7448 del 07/07/1993; Cass., Sez. 2, n. 9708 del 17/11/1994; Cass., Sez. 3, n. 3984 del
18/03/2003; Cass., Sez. L, n. 21432 del 17/10/2011).
Se il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione, risulta
arduo sostenere che il giudice dell’opposizione possa confermare il decreto ingiuntivo senza
verificare la validità del titolo (nella specie, la deliberazione assembleare) posto a fondamento
dell’ingiunzione, non potendo ritenersi consentito, in assenza di previsione di legge, creare uno ius
singulare per la materia condominiale. Invero, la validità della deliberazione posta a fondamento
della ingiunzione costituisce il presupposto necessario per la conferma del decreto ingiuntivo; non
può, pertanto, precludersi al giudice dell’opposizione di accertare, ove richiesto o dovuto, la
sussistenza del presupposto necessario per la pronuncia di rigetto o di accoglimento della
opposizione.
In secondo luogo, va rilevato poi come ragioni di economia processuale, in linea col principio
costituzionale della ragionevole durata del processo (art. Ili, secondo comma, Cost.), impongano di
riconoscere al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il potere di sindacare, ove richiesto,
l’invalidità della deliberazione posta a fondamento dell’ingiunzione.
Infatti, negare al giudice dell’opposizione la possibilità di sindacare la invalidità della deliberazione
posta a base dell’ingiunzione provocherebbe la moltiplicazione dei giudizi, perché costringerebbe il
giudice a rigettare l’opposizione e obbligherebbe la parte opponente, che intenda far valere detta
invalidità, a promuovere separato giudizio e, successivamente, nel caso in cui la deliberazione fosse
annullata, a proporre domanda di accertamento e di ripetizione di indebito ovvero opposizione
all’esecuzione, prolungando così il contenzioso tra le parti. Al contrario, riconoscere al giudice
dell’opposizione al decreto ingiuntivo la possibilità di sindacare la validità della deliberazione
assembleare consente di definire nel medesimo giudizio tutte le questioni relative alla delibera su
cui si fonda l’ingiunzione e di evitare la proliferazione delle controversie. Si tratta di una
interpretazione che, oltre ad essere in linea col principio costituzionale della ragionevole durata del
processo, consente anche di evitare il rischio di contrasti di giudicati.
5.1. – Quanto detto vale innanzitutto con riguardo al caso in cui la deliberazione assembleare sia
affetta da “nullità”.
È sufficiente, a tal fine, osservare che la nullità, quale vizio radicale del negozio giuridico,
impedisce, per sua natura, allo stesso di produrre alcun effetto nel mondo del diritto (“quod nullum
est nullum producit effectum”); essa è deducibile da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile
d’ufficio (art. 1421 cod. civ.). Perciò, negare al giudice dell’opposizione al decreto ingiuntivo il
potere di tener conto della eventuale nullità della deliberazione assembleare significa negare la
stessa nozione di nullità; significa, al postutto, costringere il giudice a ritenere giuridicamente
efficace ciò che tale non è.
Deve dunque riconoscersi – secondo i principi generali – che il giudice dell’opposizione al decreto
ingiuntivo ha il potere di sindacare la nullità della deliberazione assembleare posta a fondamento
della ingiunzione, che sia stata eventualmente eccepita dalla parte; egli ha altresì il potere-dovere di
rilevare d’ufficio l’eventuale nullità della deliberazione, con l’obbligo – in tal caso – di instaurare
sulla questione il contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ.
(cfr. Cass., Sez. Un., n. 26242 del 12/12/2014; Cass., Sez. 2, n. 26495 del 17/10/2019).
5.2. – Non vi sono neppure valide ragioni per negare al giudice dell’opposizione al decreto
ingiuntivo il potere di verificare l’esistenza di una causa di “annullabilità” della deliberazione posta
a fondamento del decreto, ove dedotta dall’opponente nelle forme di legge, e di provvedere al suo
annullamento.
Va osservato, in proposito, che la disposizione dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ. (nel testo
introdotto dall’art. 15, comma 1, I. 11 dicembre 2012, n. 220) – a tenore della quale «Contro le
deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente,
dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine
perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e
dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti» – non prevede alcuna riserva
dell’esercizio dell’azione di annullamento ad un apposito autonomo giudizio a ciò destinato, né
fornisce alcuna indicazione che legittimi una tale conclusione.
Vale, pertanto, il principio generale secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo,
l’opponente, che assume la posizione sostanziale di convenuto (al contrario dell’opposto, che
assume la posizione sostanziale di attore), nel contestare il diritto azionato con il ricorso, può
proporre domanda riconvenzionale, anche deducendo un titolo non strettamente dipendente da
quello posto a fondamento della ingiunzione (da ultimo, Cass., Sez. 2, n. 6091 del 04/03/2020;
Cass., Sez. 1, n. 16564 del 22/06/2018), e può, con la domanda riconvenzionale, esercitare l’azione
di annullamento della deliberazione posta a fondamento del decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art.
1137, secondo comma, cod. civ.
Piuttosto, occorre soffermarsi sul pregnante significato che assume la disposizione dell’art. 1137,
secondo comma, cod. civ., nel prescrivere le modalità processuali tramite le quali l’annullabilità
della deliberazione dell’assemblea dei condomini può essere fatta valere in giudizio.
Si tratta di una disposizione che descrive il “modello legal-tipico” tramite il quale l’annullabilità
della deliberazione assembleare può essere dedotta dinanzi al giudice: tale modello è quello
delibazione di impugnativa”, da esercitare mediante la proposizione di apposita domanda
giudiziale.
Ciò vuol dire che l’annullabilità della deliberazione assembleare può essere fatta valere in giudizio
soltanto attraverso l’esercizio dell’azione di annullamento; tale azione deve estrinsecarsi in una
domanda che può essere proposta “in via principale”, nell’ambito di autonomo giudizio, oppure “in
via riconvenzionale”, anche nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, sempreché
il termine per l’esercizio dell’azione di annullamento non sia perento (come avviene, ad es., nel caso
in cui il condomino assente non abbia ricevuto comunicazione della deliberazione assembleare di
riparto delle spese).
Alcune precisazioni, tuttavia, si impongono.
5.2.1. – In primo luogo, occorre chiedersi se l’annullabilità della deliberazione assembleare possa
essere fatta valere, oltre che in via di azione, anche in via di eccezione, come è consentito per
l’annullabilità relativa ai contratti (art. 1442, ultimo comma, cod. civ.).
Per trovare risposta a tale quesito, è necessario muovere dal considerare la ratio della norma di cui
all’art. 1137 cod. civ., ratio che va rinvenuta nella esigenza di assicurare certezza e stabilità ai
rapporti condominiali, di modo che l’ente condominiale sia in grado di conseguire in concreto la sua
istituzionale finalità, che è quella della conservazione e della gestione delle cose comuni
nell’interesse della collettività dei partecipanti.
Questa ratio legis spiega perché il legislatore, per un verso, ha stabilito che le deliberazioni adottate
dall’assemblea «sono obbligatorie per tutti i condomini» (art. 1137, primo comma, cod. civ.), anche
per gli assenti e per i dissenzienti; e, per altro verso, ha sancito il principio dell’esecutività delle
deliberazioni dell’assemblea, prevedendo che «L’azione di annullamento non sospende l’esecuzione
della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria» (art. 1137, terzo
comma, cod. civ.). Corollario del principio dell’efficacia obbligatoria delle deliberazioni
assembleari nei confronti di tutti i condomini è l’ulteriore principio (espressamente previsto, con
riferimento alle deliberazioni dell’assemblea delle società, dall’art. 2377, settimo comma, cod. civ.)
per cui la sentenza di annullamento della deliberazione dell’assemblea ha efficacia di giudicato, in
ordine alla causa di invalidità accertata, nei confronti di tutti i condomini, anche nei confronti di
quelli che non abbiano partecipato al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro
(cfr. Cass., Sez. 2, n. 29878 del 18/11/2019, in motiv.; Cass., Sez. 6-2, n. 19608 del 18/09/2020, in
motiv.).
In sostanza, nel sistema normativo, come non è possibile che una deliberazione assembleare valida
ed efficace vincoli alcuni condomini e non altri, essendo invece obbligatoria per tutti; così va
escluso che la deliberazione assembleare possa essere giudizialmente annullata con effetto limitato
al solo impugnante e rimanga invece vincolante per gli altri partecipanti. La natura di ente collettivo
del condomino, gestore di beni e di servizi comuni, esige che le deliberazioni assembleari debbano
valere o non valere per tutti.
Quanto detto impone di interpretare l’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel senso che
l’annullabilità della deliberazione non può essere dedotta in via di eccezione, ma solo “in via di
azione”, ossia nella sola forma che consente una pronuncia di annullamento con efficacia nei
confronti di tutti i condomini.
Vale la pena di osservare in proposito che, mentre l’azione di impugnativa è un’azione costitutiva,
che mira alla rimozione della deliberazione con efficacia erga omnes, l’eccezione ha il limitato
scopo di paralizzare la domanda altrui ed ottenerne il rigetto, senza sollecitare la cancellazione della
deliberazione viziata dal mondo giuridico. Pertanto, ove fosse consentito dedurre l’annullabilità
della deliberazione in via di eccezione, la deliberazione che risultasse viziata sarebbe privata di
validità e di efficacia solo nei confronti del condomino eccipiente, restando valida ed efficace nei
confronti degli altri condomini.
Un risultato di questo genere, però, sarebbe in contrasto con le esigenze di funzionamento del
condominio, fatte proprie dal legislatore, e, nel caso di deliberazioni di ripartizione delle spese,
renderebbe impossibile la gestione della contabilità condominiale. Infatti, la quota di contribuzione
di ciascun partecipante al condominio è rapportata alla quota di contribuzione degli altri, cosicché la
caducazione di una quota non può non travolgere, inevitabilmente, anche le altre.
In conclusione, deve ritenersi che l’art. 1137, secondo comma, cod. civ., prescrive l’azione di
annullamento quale “unico modello legale” attraverso il quale è possibile far valere l’annullabilità
della deliberazione dell’assemblea condominiale, con esclusione della possibilità di dedurre
l’annullabilità in via di eccezione.
Tale disposizione costituisce “norma speciale di ordine pubblico”, posta a tutela dell’interesse
pubblico al funzionamento della collettività condominiale, derogatoria rispetto alle ordinarie regole
dettate nella materia contrattuale. Trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, la
mancata deduzione della annullabilità nelle forme prescritte dalla legge, ossia con l’azione di
annullamento, dà luogo a decadenza per mancato compimento dell’atto previsto dalla legge, che è
rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (a differenza di quanto vale per la
decadenza discendente dalla scadenza del termine di cui all’art. 1137, secondo comma, cod. civ.,
che è riservata all’eccezione di parte, ai sensi dell’alt. 2969 cod. civ.). Il giudice, perciò, deve
dichiarare inammissibile l’eventuale eccezione con cui, nel giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo, l’opponente deduca l’eventuale annullabilità della deliberazione posta a fondamento
dell’ingiunzione.
5.2.2. – Come si è detto, la domanda di annullamento della deliberazione assembleare può essere
proposta “in via principale”, nell’ambito di autonomo giudizio, o “in via riconvenzionale”, anche
nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
La domanda in via principale può precedere il giudizio instaurato con l’opposizione al decreto
ingiuntivo, ma può anche seguirlo, purché sia osservato il termine di decadenza previsto dall’art.
1137 cod. civ. (v. infra par. 5.2.3).
Quando invece la domanda di annullamento sia proposta in seno al giudizio di opposizione a
decreto ingiuntivo, essa assumerà la veste di domanda riconvenzionale, che l’opponente (nella sua
sostanziale posizione di convenuto) ha l’onere di proporre, a pena di decadenza, con l’atto di
citazione in opposizione, che corrisponde alla comparsa di risposta del convenuto di cui all’art. 167
cod. proc. civ. (Cass., Sez. 3, n. 22528 del 20/10/2006; Cass., Sez. L, n. 13467 del 13/09/2003, in
motiv.). La decadenza che – ai sensi dell’art. 167, secondo comma, cod. proc. civ. – segue
all’inosservanza di tale onere, essendo dettata nell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del
processo, è rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass., Sez. 2, n. 4901 del 02/03/2007; Cass., Sez. 2, n.
17121 del 13/08/2020).
5.2.3. – Da ultimo, va osservato che ciascun condomino è tenuto, secondo quanto prescrive l’art.
1137 cod. civ., a far valere l’annullabilità della deliberazione dell’assemblea condominiale, a pena di
decadenza, entro il termine perentorio di trenta giorni decorrente, per i condomini assenti, dalla
comunicazione della deliberazione (e, per i condomini dissenzienti o astenuti, dalla data della sua
approvazione), divenendo in mancanza la delibera valida ed efficace nei confronti di tutti i
partecipanti al condominio (Cass., Sez. Un., n. 4806 del 07/03/2005). La decadenza dal diritto di
impugnare per l’avvenuta scadenza del termine perentorio, essendo di carattere temporale e relativa
ad una materia non sottratta alla disponibilità delle parti, non può essere rilevata d’ufficio dal
giudice (art. 2969 cod. civ.), ma è deducibile solo dalla parte a mezzo di eccezione (Cass., Sez. 2, n.
8216 del 20/04/2005; Cass., Sez. 2, n. 15131 del 28/11/2001).
5.3. – Alla stregua di quanto sopra, vanno enunciati, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod.
proc. civ., i seguenti principi di diritto:
– «Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi
condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità, dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio, della
deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale
deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via di azione – mediante apposita
domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione in opposizione – ai sensi
dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nei termine perentorio ivi previsto, e non in via di
eccezione» ;
– «Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi
condominiali, l’eccezione con la quale l’opponente deduca l’annullabilità della deliberazione
assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, senza chiedere una pronuncia di annullamento di
tale deliberazione, è inammissibile e tale inammissibilità va rilevata e dichiarata d’ufficio dai
giudice».
6. – La seconda questione da risolvere, ai fini della decisione del ricorso, riguarda il tipo di
invalidità che inficia la deliberazione dell’assemblea condominiale che ripartisca le spese tra i
condomini in violazione dei criteri dettati negli artt. 1123 e segg. cod. civ. o dei criteri
convenzionalmente stabiliti; si tratta, in particolare, di stabilire se una deliberazione siffatta debba
ritenersi affetta da “nullità”, come tale rilevabile d’ufficio e deducibile in ogni tempo da chiunque vi
abbia interesse, ovvero da mera “annullabilità”, deducibile nei modi e nei tempi previsti dall’art.
1137, secondo comma, cod. civ.
Sul punto, la giurisprudenza tradizionale di questa Suprema Corte ha affermato il seguente
principio: «Riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione
delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai
sensi dell’art. 1123 cod. civ. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è
necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali,
nell’esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., vengono in
concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione
dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel
termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.» (Cass.,
Sez. 2, n. 1455 del 09/02/1995; Cass., Sez. 2, n. 1213 del 01/02/1993).
Queste Sezioni Unite, poi, con la sentenza n. 4806 del 2005, nel ribadire il principio appena
richiamato, hanno avuto cura di tracciare il criterio distintivo tra le deliberazione assembleari
“nulle” e quelle “annullabili” nei seguenti termini: «debbono qualificarsi nulle le delibere
dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o
illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che
non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle
cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque
invalide in relazione all’oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi
relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella
prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di
prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di
informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di
convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione
all’oggetto» (Cass., Sez. Un., n. 4806 del 07/03/2005).
Nella motivazione della richiamata pronuncia, le Sezioni Unite hanno individuato il criterio
distintivo tra “nullità” e “annullabilità” nella contrapposizione tra “vizi di sostanza”, come tali
afferenti al contenuto delle deliberazioni, e “vizi di forma”, afferenti invece alle regole
procedimentali per la formazione delle deliberazioni assembleari: i “vizi di sostanza” determinanti
la nullità delle deliberazioni assembleari – è detto – ricorrerebbero quando queste ultime presentano
un oggetto impossibile o illecito; i “vizi di forma”, determinanti invece l’annullabilità,
ricorrerebbero quando le deliberazioni sono state assunte dall’assemblea senza l’osservanza delle
forme prescritte dall’art. 1136 cod. civ. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la
votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121,
1129, 1132, 1135 cod. civ.
Il criterio distintivo enunciato dalla menzionata pronuncia, tuttavia, si è rivelato non del tutto
adeguato, soprattutto con riferimento alle deliberazioni assembleari aventi ad oggetto la
ripartizione, tra i condomini, delle spese afferenti alla gestione delle cose e dei servizi comuni in
violazione dei criteri stabiliti dalla legge (artt. 1123 e segg. cod. civ.) o dal regolamento
condominiale contrattuale. È avvenuto così che, proprio nella materia della invalidità delle
deliberazioni che ripartiscono le spese condominiali in violazione dei criteri legali o convenzionali,
si è delineato un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.
Un primo indirizzo giurisprudenziale, rimasto fedele alla giurisprudenza tradizionale, ha affermato
che sono affette da nullità soltanto le delibere condominiali attraverso le quali, a maggioranza, siano
stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto
dall’art. 1123 cod. civ. o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo necessario per esse il
consenso unanime dei condomini; mentre sono meramente annullabili – e, come tali, impugnabili
nel termine di cui all’art. 1137, secondo comma, cod. civ. – le delibere con cui l’assemblea,
nell’esercizio delle attribuzioni previste dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., determina in concreto la
ripartizione delle spese medesime in violazione dei criteri dettati dall’art. 1123 cod. civ. o stabiliti
convenzionalmente da tutti i condomini (Cass., Sez. 2, n. 16793 del 21/07/2006; Cass., Sez. 2, n.
17101 del 27/07/2006; Cass., Sez. 2, n. 7708 del 29/03/2007; Cass., Sez. 2, n. 6714 del 19/03/2010;
nello stesso senso, non massimate: Cass., Sez. 2, n. 3704 del 15/02/2011; Cass., Sez. 6-2, n. 27016
del 15/12/2011; Cass., Sez. 2, n. 11289 del 10/05/2018; Cass., Sez. 2, n. 10586 del 16/04/2019).
Un secondo orientamento, però, ha affermato – in senso diametralmente opposto – che le
deliberazioni dell’assemblea adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di
ripartizione delle spese sono da considerare nulle per impossibilità dell’oggetto, e non meramente
annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione,
trattandosi di invalidità da ricondursi alla “sostanza” dell’atto e non connessa con le regole
procedimentali relative alla formazione delle decisioni del collegio, non potendo la maggioranza dei
partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per
contratto (Cass., Sez. 2, n. 5814 del 23/03/2016; Cass., Sez. 2, n. 19651 del 04/08/2017; nello stesso
senso, non massimate: Cass., Sez. 2, n. 27233 del 04/12/2013; Cass., Sez. 6-2, n. 6128 del
09/03/2017; Cass., Sez. 6-2, n. 29217 del 13/11/2018; Cass., Sez. 6-2, n. 29220 del 13/11/2018;
Cass., Sez. 6-2, n. 33039 del 20/12/2018; Cass., Sez. 2, n. 470 del 10/01/2019).
Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale ritiene che le deliberazioni di ripartizione degli oneri
condominiali adottate a maggioranza in deroga ai criteri di proporzionalità fissati dagli artt. 1123 e
segg. cod. civ., seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica
gestione, sarebbero nulle per impossibilità dell’oggetto perché eccedenti le attribuzioni
dell’assemblea; e d’altra parte – si osserva – tali deliberazioni finiscono per incidere negativa- mente
sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che
stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l’adozione di esse
necessiterebbe dell’accordo unanime di tutti i condomini.
A fronte di questo rinnovato contrasto di giurisprudenza, le Sezioni Unite ritengono di dover
ribadire i principi già affermati con la propria sentenza n. 4806 del 2005, nei termini e con le
precisazioni che seguono.
6.1. – È necessario ricordare che la figura giuridica del condominio degli edifici si caratterizza per
la coesistenza, accanto alle proprietà individuali, di una comunione forzosa tra tutti i condomini
sugli elementi del fabbricato la cui utilizzazione è necessaria ai fini del godimento delle singole
proprietà individuali. Le parti comuni dell’edificio e i servizi comuni sono amministrati dalla
volontà del gruppo; tuttavia, affinché sia evitata la paralisi della gestione comune, tale volontà
collettiva non si forma mediante il metodo contrattuale del consenso reciproco (nel quale può
operare lo ius prohibendi), ma si forma mediante il “metodo collegiale”, che assegna ogni potere
decisionale all’assemblea dei condomini, la quale delibera secondo il principio della maggioranza
(c.d. “principio maggioritario”). La volontà della maggioranza, formatasi secondo le regole e i
criteri previsti dalla legge, è vincolante per tutti i condomini, anche per quelli assenti o dissenzienti
(art. 1137, primo comma, cod. civ.).
La preoccupazione del legislatore di assicurare la certezza dei rapporti giuridici di una entità così
complessa, come il condominio degli edifici, spiega perché la relativa disciplina normativa sia
improntata ad un chiaro favor per la stabilità delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini, che
sono efficaci ed esecutive finché non vengano rimosse dal giudice (art. 1137, terzo comma, cod.
civ.), e perché tale disciplina non contempli alcuna ipotesi di nullità delle deliberazioni
dell’assemblea condominiale, che renderebbe le medesime esposte in perpetuo all’azione di nullità,
proponibile senza limiti di tempo da chiunque vi abbia interesse. Questa mancata previsione di
fattispecie di nullità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale è particolarmente significativa,
dal momento che la disciplina delle società (le quali pure sono rette dal principio maggioritario)
prevede limitate peculiari ipotesi di nullità delle deliberazioni adottate dell’assemblea dei soci (cfr.
art. 2379 cod. civ.).
La recente riforma del condominio ha poi accentuato il disfavore per le figure di nullità delle
deliberazioni assembleari. L’art. 1137 cod. civ., nel testo introdotto dall’art. 15 I. 11 dicembre 2012,
n. 220, configura ora espressamente l’impugnazione delle delibere condominiali come una azione di
«annullamento» (il testo originario dell’alt. 1137 cod. civ. non parlava espressamente di azione di
annullamento), da proporre «contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di
condominio». Il tenore amplissimo della disposizione non lascia dubbi sull’intento del legislatore di
ricondurre ogni forma di invalidità delle deliberazioni assembleari, senza distinzioni, alla figura
della “annullabilità” e di porre così a carico del singolo condomino l’onere – esigibile sul piano della
diligenza – di verificare, una volta ricevuta comunicazione di una deliberazione dell’assemblea, la
sussistenza di eventuali vizi della stessa e, in caso positivo, di impugnarla, chiedendone
l’annullamento.
Il tenore dell’art. 1137 cod. civ. non deve, tuttavia, ingannare: esso non consente di ritenere che la
categoria della nullità sia interamente espunta dalla materia delle deliberazioni dell’assemblea dei
condomini.
Esistono categorie, nel mondo del diritto, che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono
spontaneamente dal sistema giuridico, al di fuori e prima della legge. Quanto detto vale per il
concetto di “nullità” degli atti giuridici, concetto di teoria generale del diritto – elaborato dalla
pandettistica tedesca in contrapposizione a quello di annullabilità – del quale non può essere negato,
come sempre la dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto, un limitato ambito applicativo con
riferimento alle deliberazioni dell’assemblea condominiale affette dai vizi più gravi.
Storicamente la nozione di nullità è stata collegata alla “deficienza strutturale” dell’atto giuridico,
ossia alla mancanza o alla impossibilità di un elemento costitutivo o di un requisito legale di
efficacia; ma tale figura di invalidità è divenuta anche strumento di “controllo normativo”, destinato
a negare tutela giuridica agli interessi in contrasto con i valori fondamentali del sistema, con i valori
preminenti della comunità. È così che l’art. 1418 cod. civ. pone, tra le cause di nullità del contratto,
la mancanza di uno degli elementi essenziali (l’accordo delle parti; la causa; l’oggetto; la forma
quando richiesta a pena di nullità), accanto alla sua illiceità, intesa come contrarietà alle norme
imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Si tratta, allora, di verificare in quali termini le fattispecie di nullità, previste dall’art. 1418 cod. civ.
per il contratto, possano valere per le deliberazioni dell’assemblea del condominio e in quali termini
esse siano compatibili col carattere collegiale dell’assemblea e col principio maggioritario; tenendo
presente che l’ambito in cui esse possono operare è comunque circoscritto dalla disciplina posta
dall’art. 1137 cod. civ.
In particolare, nel compiere tale verifica, va tenuto presente che, con la disposizione dell’art. 1137
cod. civ., il legislatore – mosso dall’intento di favorire la sanatoria dei vizi e il consolidamento degli
effetti delle deliberazioni dell’assemblea condominiale – ha elevato la categoria della annullabilità a
“regola generale” della invalidità delle deliberazioni assembleari, confinando così la nullità nell’area
della residualità e della eccezionalità (ciò trova conferma nel fatto che, con la citata riforma del
2012, sono state introdotte – agli artt. 1117 ter, terzo comma, e 1129, quattordicesimo comma, cod.
civ. – alcune speciali fattispecie di nullità, peraltro non direttamente relative alle deliberazioni
assembleari).
Tenendo presente quanto appena detto, può ora ricercarsi lo spazio che, nella disciplina codicistica
del condominio, residua per la categoria della “nullità” con riguardo alle deliberazioni
dell’assemblea dei condomini.
6.2. – Innanzitutto, proprio considerando il fatto che la categoria della annullabilità è stata elevata
dal legislatore a “regola generale” delle deliberazioni assembleari viziate, è possibile cogliere
l’inadeguatezza del criterio distintivo tra nullità e annullabilità fondato sulla contrapposizione tra
“vizi di sostanza” e “vizi di forma”.
L’art. 1137 cod. civ. sottopone inequivocabilmente al regime dell’azione di annullamento, senza
distinzioni, tutte «le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento condominiale»; ciò vuol dire
che, secondo la disposizione in esame, sono annullabili non solo le deliberazioni assembleari che
presentano vizi di forma, afferenti cioè alle regole procedimentali dettate per la loro formazione, ma
anche quelle che presentano vizi di sostanza, afferenti al contenuto del deliberato.
Afferiscono senz’altro al contenuto delle deliberazioni dell’assemblea condominiale le numerose
disposizioni di legge che disciplinano la ripartizione delle spese tra i condomini: così, innanzitutto,
l’art. 1123 cod. civ., che detta il criterio generale per cui «Le spese necessarie per la conservazione e
per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune
e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura
proporzionale ai valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione»; ma anche le altre
disposizioni particolari che dettano specifici criteri di ripartizione con riferimento all’oggetto della
spesa (così, l’art. 1124 cod. civ., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la
sostituzione delle scale e degli ascensori; l’art. 1125 cod. civ., in tema di ripartizione delle spese per
la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai; e lo stesso art. 1126 cod. civ.,
in tema di ripartizione delle spese per le riparazioni o le ricostruzioni dei lastrici solari di uso
esclusivo).
La violazione di tali disposizioni dà luogo a deliberazioni assembleari “contrarie alla legge” con
riferimento al loro “contenuto” e, perciò, affette da un vizio di “sostanza”; ma ciò non esclude che
tale vizio rientri, in via di principio, tra quelli per i quali l’art. 1137 cod. civ. prevede l’azione di
annullamento.
D’altra parte, deve escludersi che le deliberazioni che ripartiscano le spese tra i condomini in
contrasto con i criteri legali o convenzionali siano adottate in carenza di potere da parte
dell’assemblea. Infatti, il codice civile espressamente riconosce, tra le attribuzioni dell’assemblea
condominiale da adottare col metodo maggioritario, l’approvazione e la ripartizione delle spese per
la gestione ordinaria e straordinaria delle parti e dei servizi comuni (artt. 1135 nn. 2 e 4, 1120, 1123,
1128 cod. civ.). Tali attribuzioni non vengono meno quando l’assemblea incorra in un cattivo
esercizio del potere ad essa conferito, adottando un errato criterio di ripartizione delle spese,
contrastante con la legge o col regolamento condominiale. Invero, l’attinenza di una deliberazione
alle attribuzioni assembleari va apprezzata avendo riguardo alla corrispondenza della materia
deliberata a quella attribuita dalla legge, ossia avendo riguardo all’esistenza del potere, e non al
modo in cui il potere è esercitato.
Neppure le deliberazioni che ripartiscono le spese tra i condomini in violazione dei criteri di legge o
convenzionali potrebbero ritenersi nulle per il fatto che esse finiscono per incidere negativamente,
pregiudicandola, sulla “sfera patrimoniale” dei singoli condomini. Anche deliberazioni
pacificamente annullabili (ad es. una deliberazione adottata in assenza di comunicazione dell’avviso
di convocazione dell’assemblea a taluno dei condomini) possono provocare ricadute negative sul
patrimonio di singoli condomini; ciò non vale, tuttavia, a ritenere tali deliberazioni affette da
nullità.
6.3. – Ritiene il Collegio che la categoria giuridica della nullità, con riguardo alle deliberazioni
dell’assemblea dei condomini, ha una estensione del tutto residuale rispetto alla generale categoria
della annullabilità, attenendo essa a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di
cittadinanza nel modo giuridico.
In particolare, la deliberazione dell’assemblea dei condomini deve ritenersi affetta da nullità nei
seguenti casi:
1) “Mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali” (volontà della maggioranza; oggetto;
causa; forma), tale da determinare la deficienza strutturale della deliberazione: è il caso, ad es., della
deliberazione adottata senza la votazione dell’assemblea; o della deliberazione priva di oggetto,
ossia mancante di un reale decisum ovvero con un oggetto non determinato né determinabile; o
della deliberazione priva di causa, carente cioè di una ragione pratica giustificativa della stessa che
sia meritevole di tutela giuridica; o della deliberazione non risultante dal verbale dell’assemblea,
sprovvista perciò della necessaria forma scritta.
2) “Impossibilità dell’oggetto, in senso materiale o in senso giuridico”, da intendersi riferito al
contenuto (c.d. decisum) della deliberazione.
L’impossibilità materiale dell’oggetto della deliberazione va valutata con riferimento alla concreta
possibilità di dare attuazione a quanto deliberato; l’impossibilità giuridica dell’oggetto, invece, va
valutata in relazione alle “attribuzioni” proprie dell’assemblea.
In ordine all’impossibilità giuridica dell’oggetto, vale la pena di osservare che l’assemblea, quale
organo deliberativo della collettività condominiale, può occuparsi solo della gestione dei beni e dei
servizi comuni; essa è abilitata ad adottare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla
legge o dal regolamento di condominio (avendo le attribuzioni indicate dall’art. 1135 cod. civ.
carattere meramente esemplificativo), purché destinato alla gestione delle cose e dei servizi
comuni.
Perciò, l’assemblea non può perseguire finalità extra-condominiali (Cass., Sez. 2, n. 5130 del
06/03/2007); e neppure può occuparsi dei beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli
condomini o a terzi, giacché qualsiasi decisione che non attenga alle parti comuni dell’edificio non
può essere adottata seguendo il metodo decisionale dell’assemblea, che è il metodo della
maggioranza, ma esige il ricorso al metodo contrattuale, fondato sul consenso dei singoli proprietari
esclusivi.
E allora, il potere deliberativo dell’assemblea in tanto sussiste in quanto l’assemblea si mantenga
all’interno delle proprie attribuzioni; ove l’assemblea straripi dalle attribuzioni ad essa conferite
dalla legge, la deliberazione avrà un oggetto giuridicamente impossibile e risulterà viziata da
“difetto assoluto di attribuzioni”.
Il “difetto assoluto di attribuzioni” è un vizio che non attiene al quomodo dell’esercizio del potere,
ma attiene all’an del potere stesso; esso non dipende dal cattivo esercizio in concreto di un potere
esistente, ma dalla carenza assoluta in astratto del potere esercitato: in tali casi, la deliberazione non
è idonea a conseguire l’effetto giuridico che si proponeva, risultando affetta da nullità radicale per
“impossibilità giuridica” dell’oggetto.
Non così avviene, invece, quando l’assemblea adotti una deliberazione nell’ambito delle proprie
attribuzioni, ma eserciti malamente il potere ad essa conferito; quando essa adotti una deliberazione
violando la legge, ma senza usurpare i poteri riconosciuti dall’ordinamento ad altri soggetti
giuridici: in tali casi, la deliberazione “contraria alla legge” è semplicemente annullabile, secondo la
regola generale posta dall’art. 1137 cod. civ.
3) “Illiceità”. Si tratta di quei casi in cui la deliberazione assembleare, pur essendo stata adottata
nell’ambito delle attribuzioni dell’assemblea, risulti avere un “contenuto illecito” (art. 1343 cod.
civ.), nel senso che il decisum risulta contrario a “norme imperative”, all'”ordine pubblico” o al
“buon costume”.
Sono nulle, innanzitutto, le deliberazioni assembleari che abbiano un contenuto contrario alle norme
imperative. Le norme imperative sono quelle norme non derogabili dalla volontà dei privati, poste a
tutela degli interessi generali della collettività sociale o di interessi particolari che l’ordinamento
reputa indisponibili, assicurandone comunque la tutela. Nella disciplina del condominio degli
edifici, le norme inderogabili sono specificamente individuate dagli artt. 1138, quarto comma, cod.
civ. e 72 disp. att. cod. civ.
Parimenti vanno ritenute nulle le deliberazioni assembleari che abbiano un contenuto contrario
all’ordine pubblico, inteso quale complesso dei principi generali dell’ordinamento (tale sarebbe, ad
es., una deliberazione che introducesse discriminazioni di sesso o di razza tra i condomini nell’uso
delle cose comuni); ovvero che abbiano un contenuto contrario al buon costume, inteso quest’ultimo
come il complesso delle regole che costituiscono la morale della collettività sociale in un dato
ambiente e in un determinato tempo. In questi casi, la deliberazione assembleare, nonostante verta
su una materia rientrante nelle attribuzioni dell’assemblea, si pone però in tale contrasto con i valori
giuridici fondamentali dell’ordinamento da non poter trovare alcuna tutela giuridica, sicché la sua
nullità può essere fatta valere in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse (anche da parte del
condomino che abbia votato a favore della sua approvazione).
Al di fuori di tali ipotesi, deve ritenersi che ogni violazione di legge determina la mera annullabilità
della deliberazione, che può essere fatta valere solo nei modi e nei tempi di cui all’alt. 1137 cod.
civ.
6.4. – Rimane a questo punto da stabilire, alla luce dei criteri appena enunciati, se le deliberazioni
assembleari che ripartiscono le spese condominiali in violazione dei criteri stabiliti dalla legge o dal
regolamento condominiale contrattuale configurino o meno una delle ipotesi di nullità sopra
esaminate.
Ritiene il Collegio – così confermando quanto già affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza
n. 4806 del 2005 – che le delibere in materia di ripartizione delle spese condominiali sono nulle per
“impossibilità giuridica” dell’oggetto ove l’assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifichi
i criteri di ripartizione delle spese, stabiliti dalla legge o in via convenzionale da tutti i condomini,
da valere – oltre che per il caso oggetto della delibera – anche per il futuro; mentre sono
semplicemente annullabili nel caso in cui i suddetti criteri vengano soltanto violati o disattesi nel
singolo caso deliberato.
In proposito, va osservato che le attribuzioni dell’assemblea in tema di ripartizione delle spese
condominiali sono circoscritte, dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., alla verifica ed all’applicazione in
concreto dei criteri stabiliti dalla legge e non comprendono il potere di introdurre modifiche ai
criteri legali di riparto delle spese, che l’art. 1123 cod. civ. consente solo mediante apposita
convenzione tra tutti i partecipanti al condominio; di modo che l’assemblea che deliberi a
maggioranza di modificare, in astratto e per il futuro, i criteri previsti dalla legge o quelli
convenzionalmente stabiliti (delibere c.d. normative) si troverebbe ad operare in “difetto assoluto di
attribuzioni”.
Al contrario, non esorbita dalle attribuzioni dell’assemblea la deliberazione che si limiti a ripartire in
concreto le spese condominiali, anche se la ripartizione venga effettuata in violazione dei criteri
stabiliti dalla legge o convenzionalmente, in quanto una siffatta deliberazione non ha carattere
normativo e non incide sui criteri generali, valevoli per il futuro, dettati dall’art. 1123 e segg. cod.
civ. o stabiliti convenzionalmente, né è contraria a norme imperative; pertanto, tale delibera deve
ritenersi semplicemente annullabile e, come tale, deve essere impugnata, a pena di decadenza, nel
termine (trenta giorni) previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.
6.5. – Alla stregua di quanto sopra, vanno enunciati, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc.
civ., i seguenti principi di diritto:
– «In tema di condominio negli edifici’, sono affette da nullità, deducibile in ogni tempo da
chiunque vi abbia interesse, le deliberazioni dell’assemblea dei condomini che mancano ab origine
degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o in
senso giuridico – dando luogo, in questo secondo caso, ad un “difetto assoluto di attribuzioni” – e
quelle che hanno un contenuto illecito, ossia contrario a “norme imperative” o air’ordine pubblico” o
ai “buon costume”; al di fuori di tati ipotesi, le deliberazioni assembleari adottate in violazione di
norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili e l’azione di
annullamento deve essere esercitata nei modi e nel termine di cui all’art. 1137 cod. civ.»)
– «In tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, sono nulle le deliberazioni con le quali, a
maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalla
legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni
dell’assemblea previste dall’art. 1135, numeri 2) e 3), cod. civ. e che è sottratta ai metodo
maggioritario; sono, invece, meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione
in concreto tra i condomini delle spese relative alia gestione delle parti e dei servizi comuni adottate
senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ma in violazione degli
stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio delle dette attribuzioni assembleari’, che non
sono contrarie a norme imperative, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di
decadenza previsto dall’art. 1137, secondo comma, cod. civ.».
7. – A questo punto, alla luce dei principi di diritto sopra enunciati, può passarsi alla verifica della
fondatezza del terzo e del quarto motivo di ricorso.
È opportuno ricordare che, con tali motivi, il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello di
Messina abbia rigettato l’opposizione a decreto ingiuntivo dal medesimo proposta, sull’assunto che
le questioni relative alla nullità o alla annullabilità, per violazione dei criteri legali di cui agli artt.
1123 e 1226 cod. civ., delle deliberazioni di ripartizione delle spese condominiali, relative al
rifacimento del lastrico solare (terzo motivo) e alla riparazione dei torrini e delle scarpe di piombo
dell’edificio condominiale (quarto motivo), non potessero essere esaminate nel giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo, dovendo piuttosto essere esaminate in un separato giudizio di
impugnativa avverso le deliberazioni assembleari.
Orbene, ritengono le Sezioni Unite che entrambi i motivi debbano essere rigettati, previa correzione
della motivazione in diritto, ai sensi dell’art. 384, quarto comma, cod. proc. civ., nei termini che
seguono.
Secondo i principi sopra enunciati (par. 5.3), nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice non può esimersi dal sindacare la
nullità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione e neppure la sua
annullabilità, purché quest’ultima sia dedotta (non in via di eccezione, ma) “in via di azione”, con
apposita domanda di annullamento proposta ai sensi dell’art. 1137, secondo comma, cod. civ., nel
termine perentorio ivi previsto.
Ha errato, pertanto, la Corte territoriale ad affermare che la nullità e l’annullabilità delle
deliberazioni assembleari poste a fondamento della ingiunzione non potessero comunque essere da
essa sindacate; dovendosi al contrario ritenere che fosse senz’altro sindacabile la nullità delle dette
deliberazioni e che fosse sindacabile anche l’annullabilità delle medesime, purché fatta valere
mediante l’esercizio di apposita domanda riconvenzionale di annullamento.
Nonostante l’erroneità della motivazione in diritto, la impugnata sentenza della Corte di Appello di
Messina non può, tuttavia, essere cassata, perché il suo dispositivo risulta conforme a diritto, avuto
riguardo alla natura della dedotta invalidità delle deliberazioni assembleari e alla mancata
deduzione della stessa nelle forme di legge.
Invero, secondo la prospettazione del ricorrente, le deliberazioni assembleari poste a fondamento
dell’ingiunzione sarebbero affette da nullità perché avrebbero ripartito le spese tra i condomini in
pretesa violazione dei criteri dettati dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ.
Tuttavia, sulla base dei principi di diritto sopra enunciati a par.
6.5, deliberazioni siffatte non possono comunque ritenersi nulle, potendo invece – in ipotesi –
ritenersi semplicemente annullabili. Si tratta, infatti, di deliberazioni che non hanno modificato in
astratto e per il futuro i criteri legali di ripartizione delle spese, ma hanno semplicemente disposto la
ripartizione tra i condomini di spese particolari, nell’ambito delle attribuzioni riconosciute
all’assemblea dei condomini dall’art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., in pretesa violazione dei criteri
dettati dagli artt. 1123 e 1126 cod. civ.
Trattandosi di deliberazioni in ipotesi meramente annullabili, il ricorrente avrebbe dovuto esercitare
l’azione di annullamento nei modi e nei tempi previsti dall’art. 1137 cod. civ. Non avendo il
ricorrente esercitato l’azione di annullamento, mediante la proposizione di apposita domanda
riconvenzionale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, esattamente i giudici di merito
hanno ritenuto non scrutinarle la dedotta invalidità.
I motivi di ricorso in esame vanno, pertanto, rigettati, con la diversa motivazione in diritto di cui
sopra.
8. – In definitiva, l’intero ricorso deve essere rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate tra le parti, attesa la complessità
delle questioni giuridiche sottoposte e la rilevata necessità di correggere la motivazione in diritto
della impugnata sentenza.
9. – Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, va dato atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a
quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa tra le
parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se
dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di
Cassazione, addì 6 ottobre 2020.